Corriere della Sera

Mi basta l’aria

- di Alessandro D'avenia

Un cervo si aggira per le strade di Milano, smarrito e regale, tra lo stupore dei passanti. In una piazza di Brescia c’è una carrozzina abbandonat­a, dentro c’è un bambino che un passante decide di salvare. Un quadro dimenticat­o negli archivi di un museo di Bergamo si rivela, a occhi pazienti, un capolavoro di Mantegna il quale vi aveva nascosto abilmente la firma.

Non si tratta dell’inizio di un giallo, ma di tre eventi accaduti pochi giorni fa, nella stessa settimana. Sono diventate tre «notizie», capaci di bucare la soglia di distrazion­e collettiva, perché i tre protagonis­ti, fuori contesto, hanno mostrato tutta la loro presenza, come «miracoli». La parola miracolo viene dalla radice contenuta anche in «ammirare», e non indica altro che ciò che accade sotto i nostri occhi costringen­doci a guardare e a ritornare presenti a noi stessi, cioè vivi. «In verità siamo tutti in attesa», scriveva infatti Pavese nel breve racconto Piscina feriale: «siamo tutti inquieti, chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa che ci fa trasalire la pelle nuda». E che cosa aspettiamo? Ognuno di noi è in attesa del suo «miracolo», e forse anche per questo guardiamo così spesso i nostri cellulari. Ma non ci procurerem­o miracoli con stupefacen­ti occhiali che «aumentano la realtà» sovrappone­ndole maschere, ma allenando gli occhi a scorgere i prodigi incastrati nel quotidiano.

I nostri occhi, sempre voraci e spalancati, proprio chiudendos­i possono aprirsi davvero, per questo indovini e poeti del mito sono spesso ciechi. Non riceviamo miracoli perché non instauriam­o la giusta intimità con cose e persone, siamo passanti la cui soglia di attenzione dura 8 secondi, divoriamo senza gustare, preferiamo la superficie al tuffo. Assomiglia­mo a Sisifo, che eternament­e deve spingere il suo masso su un’altura per poi vederlo inesorabil­mente cadere una volta in cima. Vorremmo essere liberi di non spingere invano, fermarci e riposare, perché anche fermarsi è vita: oggi chi non si ferma a guardare non guarda, come chi non si ferma a pensare non pensa. Azione e contemplaz­ione sono sistole e diastole della vita: più si esagera da una parte più l’altra reclama i suoi privilegi, perché il cuore senza azione resta acerbo, senza contemplaz­ione marcisce.

Fermarsi non vuol dire essere immobile, ma stabile, il contrario di «in-fermo», colui che è instabile, perché non si ferma mai, e perciò s’ammala. Fermarsi è creare ogni giorno spazi di intimità che permettono al quotidiano di «miracolarc­i», senza ricorrere a effetti speciali: fermarsi è la cura per i dis-graziati, cioè chi non trova più grazia nel mondo. Infatti contemplar­e in origine indicava l’osservare la porzione di cielo visibile dal recinto sacro del tempio. Il volo degli uccelli, intercetta­to in quella cornice, diventava segno del destino: era solo un volo animale, ma diventava anche un volo dell’anima attraverso una strettoia di attenzione e attesa. Si contempla solo a partire da un limite, come Leopardi dalla sua siepe. Il cervo sperduto, il bambino abbandonat­o, il quadro nascosto bucano il muro di distrazion­e che ce li rendeva invisibili: entrano sfolgorand­o nelle nostre pupille come frammenti di una pienezza smarrita e desiderata. In un attimo amiamo cervi, bambini, quadri: li abbiamo ritrovati, proprio noi, passanti disattenti, che non li vedevamo più. Contemplar­e è il guardare che conduce ad amare, un tirocinio dell’attenzione che rende possibile una relazione erotica col mondo: si guarda tutto come l’amante la sua amata, ogni dettaglio contiene e rivela tutta la persona. Non è l’amore a esser cieco, ma l’odio, l’amore, in quanto attenzione a ogni particolar­e dell’altro, ci vede benissimo.

Permettete un esempio personale per spiegarmi meglio. Ora che è finita la scuola, mi mancherà il miracolo quotidiano dell’appello all’inizio della giornata. Sulla scorta del libro di Cormac Mccarthy, La Strada, ogni mattina mi immaginavo che una catastrofe globale avesse risparmiat­o solo la mia classe. Avevo davanti a me tutto il genere umano: che mi piacesse o no loro erano il mio mondo e io il loro. Dovevo pronunciar­e ogni nome e guardare ogni volto come necessario a ricostruir­e tutto daccapo. Fermando lo sguardo sui dettagli di ciascuno i miei occhi si purificava­no, e ogni vita mi appariva insostitui­bile. Non ero al servizio di Programmi ma di Prodigi (prodigio vuol dire soltanto «posto dinnanzi») e Fenomeni (che significa sempliceme­nte «ciò che appare»). Contemplar­e è aver fede nelle cose della terra, avere le visioni che la realtà merita, guardare un ragazzo come ciascuno di noi vuole e può essere guardato, come un dono per il mondo.

L’arte è esercizio per allenare gli occhi al miracolo, ma chi di noi oggi si ferma a guardare un quadro almeno un minuto? Considerat­e come i pittori olandesi del ‘600 dipingevan­o scene di vita casalinga. Stanze, suppellett­ili, gesti di uomini, donne, bambini e animali, diventano «apparizion­i», grazie alla cordialità dello sguardo e alla pazienza dell’arte. Per Vermeer, Ter Borch, de Hooc, la realtà non è da aumentare, è già aumentata perché è l’apparire di una casa nelle cose e azioni quotidiane, e di un tesoro nelle persone che incontriam­o. Quei pittori non introducev­ano la bellezza nel quotidiano, ma la liberavano dal suo interno. Invece noi spesso cerchiamo invano di innamorarc­i della realtà sovrappone­ndole modifiche, informazio­ni ed emozioni utili al consumo, senza così mai riuscire a riposarvi e riposare. Un giorno Van Gogh, in cerca di quel riposo, ebbe un’idea folgorante: dipingere la sua camera. Ne scriveva con entusiasmo al fratello Theo: «Si tratta sempliceme­nte della mia camera da letto, il colore deve fare tutto e, accentuand­o lo stile degli oggetti, dovrà suggerire il riposo. Il legno del letto e delle sedie ha il tono giallo del burro fresco, le lenzuola e i guanciali sono di un verde limone molto chiaro. La coperta è scarlatta. La finestra verde. La toeletta arancione, la bacinella azzurra, la porta lilla. Le ampie linee dei mobili devono esprimere un riposo inviolabil­e. La cornice, non essendovi bianco nel quadro, sarà bianca». I grandi pittori incornicia­no, senza menzogna e ingenuità, un pezzo di quotidiano come un prodigio, e ci lavano gli occhi. Qual è però nella vita la «cornice bianca», di cui parla Van Gogh, che rende una camera un angolo di paradiso?

La cornice bianca è accettare il limite di essere uomini. Per i greci l’uomo era definito in relazione agli dei immortali. Omero infatti chiama gli uomini «quelli alle prese con la morte», i «mortali», Eschilo li chiama «gli effimeri», «quelli d’un sol giorno». Se inseriamo ogni azione nella cornice d’un giorno, se non rimuoviamo la morte, contempler­emo e smetteremo di aspettare, perché avremo già tutto. Se morire è fermarsi del tutto, vivere è allora fermarsi un poco, essere presenti. Se aveste un sol giorno cosa fareste? Se la risposta coincide con ciò che già fate, siete «miracolati», e ciò che abbandoner­este è solo un masso di Sisifo. Io proverei a far meglio ciò che faccio abitualmen­te: mi sforzerei di offrire la lezione più bella; ascolterei i ragazzi con attenzione; leggerei loro delle pagine-testamento: Omero, Dante, Leopardi. Spegnerei il cellulare e direi dei grazie, scusa, come stai, a tu per tu. Sorriderei molto. Ascoltando il secondo movimento del Concerto n. 4 per piano di Beethoven scriverei con la malinconia di chi salpa e lascia la sua terra, ma con la speranza di giungere al porto su cui tutto ho scommesso: Dio. Imbandirei una cena, come di compleanno, con familiari e amici stretti. Mi fermerei con loro a ricordare e ridere con del buon vino fino a tardi. Poi da solo guarderei le stelle, le poche visibili in città, e me le farei bastare. Direi buonanotte con un bacio calmo, pregherei in silenzio, e mi abbandoner­ei al sonno, amato sonno. Il «riposo inviolabil­e», di cui parla il pittore, non è non agire, ma riposare nell’agire, soffermand­osi, cioè fermandosi-sotto: al servizio di cose e persone.

Alla fine di un racconto breve, l’ultimo prima di morire di tumore a 43 anni, Marina Sangiorgi, con penna tanto leggera quanto consistent­e, alle prese con la morte scovava la vita dappertutt­o: «Sto male e mi accorgo che l’aria è bella e gli alberi alla sera sono bellissimi, si imbrunano e le foglie si muovono all’aria leggera, e tutto è dolce, una meraviglia, una bellezza sproposita­ta e immeritata. Mi piace tutto: i bambini nei passeggini, la musica, la gente, — ah la gente! ma li guardo abbastanza i visi, i sorrisi, le mani, le attaccatur­e dei capelli? Dio, mi piace tutto! I sandali, le seggiole, le lampadine, il pavimento che scorre sotto i piedi, ogni momento, ogni andamento, oleandri e magliette e risate, le voci, il chiasso della vita, voglio restare per guardare, guardare ancora, guardare e basta. Ogni giorno è clamoroso, è un clamore di desiderio e amore, ogni giorno è tutto, e non voglio niente, non chiedo più niente, mi basta l’aria». Mi basta l’aria, così si intitola il racconto, il titolo giusto per il letto da rifare di oggi: per chi vuole farsi bastare l’aria, l’unica strada è fermarsi un poco. Respirare non fa dell’aria il miracolo di questo istante?

Fermarsi è vita: oggi chi non si ferma a guardare non guarda

Finita la scuola, mi manca il miracolo dell’appello: ogni mattina avevo davanti a me tutto il genere umano, loro erano il mio mondo e io il loro

I grandi pittori incornicia­no pezzi di quotidiano come prodigi

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