La coscienza di Emily Dickinson Una poetessa oltre ogni schema
Ironia, rigore, femminilità: Cynthia Nixon volto dell’autrice americana
Si dice che animali e bambini siano le cose più difficili da filmare al cinema, ma poeti e poetesse non sono certo da meno: il rischio dell’agiografia, del «buco della serratura» (attraverso cui spiare il lato meno nobile di un genio) o della didascalicità sono sempre in agguato, soprattutto se il personaggio in questione unisce all’originalità e all’arditezza dei propri versi una vita all’apparenza opposta, rinunciataria e punitiva. Proprio come Emily Dickinson (1830 – 1886), cui Terence Davies ha dedicato il suo film più recente A Quiet Passion, Una passione quieta.
Un titolo che è una specie di ossimoro, di contraddizione in termini, che il regista e sceneggiatore inglese illustra fin dalle prime scene, quando il calvinismo congregazionalista che imperava nel Massachusetts del diciannovesimo secolo, incapace di immaginare altro che la sottomissione alle regole di una imperiosa religiosità, viene messo in discussione da una giovane studentessa — la diciassettenne Emily Dickinson (interpretata da Emma Bell. Poi, adulta, sarà Cynthia Nixon, l’amanda di Sex and the City) — che non vuole venire a patti con la propria razionalità e un senso del sacro lontanissimo dalle regole confessionali. Non c’è rabbia o ribellione nelle sue parole, ma solo la determinazione di chi non vuole accettare compromessi. Soprattutto con la propria intelligenza e sensibilità.
La poetessa americana che Terence Davies vuole raccontare è già tutta qui, nella paladina di una «passione quieta» che prende la forma dell’ostinazione ma anche del rigore, di cui è pronta a pagare le conseguenze per prima cosa su se stessa.
Non sappiamo molto della vita della Dickinson e anche per le sue poesie bisognò aspettare la morte prima di conoscerle (in vita riuscì a farsene pubblicare più o meno una dozzina delle circa 1700 scritte) e poi attendere un’altra cinquantina d’anni prima che quei versi fossero riportati alla loro forma originale, perché i primi editori li alterarono e li edulcorarono per renderli più adatti al gusto imperante. Ma questa scarsità di informazioni (che innesca- rono innumerevoli illazioni, soprattutto sulla vita sessuale di una donna che rivendicava con orgoglio la propria «zitellaggine») offrono al regista la possibilità di ricreare sullo schermo i vari elementi del suo carattere — rigore morale, ambizione letteraria, coscienza femminile, ironia mordace — che prendono forma nei rapporti con un padre «puro e terribile» (Keith Carradine), con l’amata sorella Vinnie (Jennifer Ehle), in modi a volte conflittuali col fratello Austin (Duncan Duff) o nella complice amicizia con Vryling Buffam (Catherine Bailey).
Ne poteva uscire un film imbalsamato nella sua «teatralità» e invece Davies mette in scena questi incontri/ scontri giocando sui primi e sui primissimi piani (la Nixon è straordinaria ma tutto il cast non è da meno), mentre il ritmo è dettato dal gioco dei colori, delle ombre, delle sfumature, straordinariamente fotografate da Florian Hoffmeister.
Come a voler ritrovare la semplicità lessicale e insieme la complessità delle poesie dickinsoniana, dove anche le immagini più astratte — psicologiche o mentali — prendono forme semplici e concretissime.
In questo modo il film gioca coi vuoti e i pieni, le luci e le ombre di un’ambientazione quasi tutta in interni per trasmettere la forza di un personaggio che rivendica con orgoglio la forza della poesia, di cui ascoltiamo — recitate fuori campo, a mo’ di accompagnamento musicale — alcune delle sue composizioni più celebri. Come i versi di C’è una parola mentre scorrono le fotografie della Guerra di Secessione scattate da Mathew B. Brady o quelli, strazianti, di Poiché non potevo fermarmi per la Morte sulle immagini del suo funerale.
Così da comporre un quadro che sa ritrovare lo spirito della poesia di Emily Dickinson illustrandone man mano la rigidezza morale, l’angoscia per il proprio aspetto fisico, la paura di un caos da cui vorrebbe «nascondersi» e più in generale la sofferenza di un esistere che Terence Davies ha ben conosciuto nella propria vita e che spesso è stata al centro degli altri suoi bellissimi film, sfortunatamente poco visti in Italia.
Una donna ostinata e complessa Il regista Terence Davies sa evitare il rischio dell’agiografia, della teatralità o di eccessi didascalici