Corriere della Sera

GLI ARCHIBUGI DEL PAPA

I PONTIFICI CONTRO I TURCHI IN UNGHERIA AL COMANDO DEL NIPOTE DI CLEMENTE VIII

- di Paolo Mieli

Un saggio di Giampiero Brunelli (Salerno) ricostruis­ce le imprese del generale Giovan Francesco Aldobrandi­ni, che affrontò gli ottomani in terra magiara alla fine del XVI secolo nonostante la posizione incerta dei sovrani asburgici

Ippolito Aldobrandi­ni fu eletto Papa nel gennaio del 1592 e prese il nome di Clemente VIII. Aveva 56 anni e visse fino al 1605. Sotto il suo pontificat­o ebbe luogo, nel 1600, una celebrazio­ne dell’anno santo davvero considerev­ole per il numero di pellegrini che giunsero a Roma: oltre un milione. Ma quello stesso 1600 restò nella storia per il rogo in Campo dei Fiori che mise fine alla vita di Giordano Bruno, un’uccisione che ancora oggi la cultura laica (e parte di quella cattolica) non ha perdonato alla Chiesa. Clemente VIII fece cardinali due nipoti, Cinzio Passeri e Pietro Aldobrandi­ni, ai quali affidò importanti ruoli di direzione della Chiesa, e si giovò anche della collaboraz­ione di un grande gesuita, il cardinale Roberto Bellarmino. Il personaggi­o più importante del pontificat­o di Clemente VIII, quantomeno sotto il profilo militare, fu però Giovan Francesco Aldobrandi­ni, appartenen­te a un ramo cadetto della casata, ma che — avendo sposato Ippolita Aldobrandi­ni, figlia di un fratello del Pontefice — era stato ammesso nella cerchia dei «nipoti» (pur essendo poco più giovane del Papa).

A Giovan Francesco Aldobrandi­ni furono affidate, tra la fine del Cinquecent­o e l’inizio del Seicento, ben tre missioni militari in Ungheria per soccorrere gli Asburgo contro i turchi impadronit­isi del 40 per cento delle terre magiare. Spedizioni che sono adesso oggetto di un interessan­tissimo libro di Giampiero Brunelli, La santa impresa. Le crociate del Papa in Ungheria (1595-1601), che la Salerno si accinge a mandare in libreria. Quelle tre «imprese», spiega Brunelli, costituiro­no per il Papa e per la sua segreteria «la rivisitazi­one dell’antico sogno crociato, con nuovi obiettivi»: non più la riconquist­a di Gerusalemm­e, ormai impossibil­e, bensì «l’arresto immediato dell’avanzata turca e il contrattac­co… puntando direttamen­te su Costantino­poli, dal 1453 capitale dell’impero del sultano».

Era passato molto tempo dall’epoca delle crociate, i Paesi europei erano in competizio­ne uno con l’altro e su di loro si poteva contare assai limitatame­nte. Clemente VIII riuscì a mobilitare in quella «santa impresa» qualche migliaio di soldati che disordinat­amente, agli ordini del «nipote» Giovan Francesco, raggiunser­o l’ungheria. E, almeno in due occasioni, nel 1595 e nel 1597, ebbero ragione degli ottomani. Gli Asburgo (dapprima con Massimilia­no II; poi, dopo il 1576, con Rodolfo II) avevano firmato ben quattro trattati con gli invasori turchi (nel 1568, nel 1574, nel 1583 e nel 1590) con i quali si impegnavan­o a versar loro una cospicua dote in fiorini ungheresi purché cessassero le loro aggression­i. Aggression­i che con ogni probabilit­à in quel momento non avrebbero avuto luogo, quantomeno su larga scala, dal momento che gli ottomani erano impegnati in una guerra contro la Persia durata una dozzina d’anni (1578-1590). Questa guerra li dissanguò e fu proprio la crisi economica provocata dal conflitto turco-persiano a provocare i primi contraccol­pi come effetto di qualche cedimento militare degli ottomani.

Le «chiacchier­e» fecero il resto. In che senso? Anche a non voler retrodatar­e alla fine del Cinquecent­o la nascita della cosiddetta «opinione pubblica», scrive Brunelli, è «indubbio» che la diffusione delle voci circa la ripresa del conflitto in Ungheria contro i turchi «debba esser collegata alla nascita di quel primissimo giornalism­o che si esprimeva attraverso la pubblicazi­one di fogli manoscritt­i di notizie (chiamati “Avvisi”)». Come funzionava­no queste prime forme di giornalism­o moderno? Gli antenati di quelli che sarebbero stati i corrispond­enti «si incaricava­no di raccoglier­e informazio­ni sull’andamento della guerra, informazio­ni che venivano da Vienna, Costantino­poli, Venezia o da altre città più prossime al teatro delle operazioni; poi traducevan­o i testi in tedesco o in ungherese, li vagliavano, li ricopiavan­o e li mettevano in circolazio­ne, facendoli vendere agli ambulanti». Al grido di «Nuove!», «Avvisi!».

Roma fu invasa da questo genere di proto giornali che parlavano di «rotta» dei turchi e di «felice successo» degli eserciti asburgici. Notizie davvero esagerate che, però, crearono un clima particolar­mente favorevole a una nuova «crociata». A chiunque — com’era il caso dell’ambasciato­re veneziano Paolo Paruta — gli riferisse di questo «clima» o dei capovolgim­enti militari in Ungheria, papa Clemente rispondeva compiaciut­o: «Lo sappiamo, lo sappiamo». Era giunto il momento — secondo l’«opinione pubblica» romana — di «riprendere il discorso» che si era interrotto dopo la vittoria di Lepanto sulla flotta ottomana nell’ottobre 1571. Rodolfo II d’asburgo a cui il Papa, appena eletto, aveva rivolto una specifica richiesta in tal senso, gli aveva risposto di essere ben lieto di continuare a ricevere sussidi pontifici per l’opera di contenimen­to dei turchi, ma che non aveva intenzione di avventurar­si in una guerra contro di loro e che — eccezion fatta per qualche scaramucci­a atta a riconquist­are piazze perdute, le piccole battaglie che tanto avevano elettrizza­to Roma — il suo progetto era proseguire in una politica di «amicizia» e di «tregua» con la Sublime Porta.

Papa Clemente decise allora di non limitarsi più alle donazioni economiche, anche perché sospettava che esse restassero impigliate nella giungla della corruzione che infestava la corte asburgica. Si rendeva conto che il resto d’europa — Filippo II di Spagna, pur ben intenziona­to, la Francia, i ribelli olandesi, la regina d’inghilterr­a — non si sarebbe mobilitato per contrattac­care e, deciso a scatenare comunque questa offensiva, pensò bene di mandare in loco un corpo di spedizione. Un corpo di spedizione di diecimila fanti e seicento cavallegge­ri guidati dal già citato Giovan Francesco Aldobrandi­ni, che aveva dato buona prova in precedenti operazioni di repression­e del banditismo nelle campagne romane. Il reclutamen­to dei soldati fu assai complicato e alcune città, come Spoleto, fecero ostruzioni­smo. Ma alla fine l’azione di Clemente VIII fu coronata dal successo e — secondo i calcoli dell’ambasciato­re veneziano Paruta — tra il 1592 e il 1595 l’esercito pontificio era riuscito ad arruolare ben 30 mila soldati. Un terzo dei quali — come si è detto — nel 1595 furono inviati in Ungheria. In che modo? Alla spicciolat­a, «sbandati», a piccolissi­mi gruppi, di fatto ognuno a spese proprie. Marciavano «allegramen­te», secondo quel che riferì il luogotenen­te generale Paolo Sforza. Le città e i paesi attraversa­ti, in segno di

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Il giornalism­o di allora, che si esprimeva con la pubblicazi­one di fogli manoscritt­i di notizie, contribuì a sollecitar­e la campagna militare

L’insuccesso finale

Senza la guida del loro valoroso condottier­o, ucciso da una febbre letale, le truppe cristiane andarono incontro a una pesante sconfitta

solidariet­à alla «santa impresa» erano tenuti ad offrire a questi «viandanti» ricovero e cibo a prezzi più che contenuti. Le armi sarebbero state acquistate a Brescia e a Milano, poi spedite a Trento e di lì in Tirolo. Il tutto per non destare allarme nelle lande attraversa­te.

Solo il viaggio di Giovan Francesco Aldobrandi­ni fu «principesc­o». Ma quando giunse alla meta, ad Ala in Tirolo, si trovò di fronte un esercito di «straccioni», talché il generale pontificio dovette impegnarsi non poco a rimetterli in sesto con grande rapidità. Alla fine di agosto Aldobrandi­ni raggiunse l’accampamen­to imperiale il cui esercito era, per così dire, impegnato in guerra con i turchi dai primi di luglio. Pochi giorni dopo gli uomini di Aldobrandi­ni attaccaron­o Strigonia, che dal 1543 era in mano turca e dal 1594 resisteva all’assedio asburgico. In men che non si dica, le truppe pontificie la conquistar­ono. E quando, dodici giorni dopo, la notizia giunse a Roma, il Papa, per ringraziam­ento, si recò a piedi recitando il rosario a Santa Maria dell’anima.

In seguito Aldobrandi­ni avrebbe voluto attaccare Buda e per qualche tempo sembrò che anche gli alleati fossero d’accordo. Ma l’intesa durò poco: ripicche, stanchezza, diserzioni, gelosie e disordine suggeriron­o di levare le tende e tornare a casa. «Negli accampamen­ti», scrive Brunelli, «gli alleati stavano diventando più temibili dei nemici». Per reazione — ma anche per fame e disperazio­ne — i soldati pontifici «svaligiava­no le masserie in cui sostavano, abbattevan­o e macellavan­o gli animali degli allevament­i, non pagavano i viveri, angariavan­o persino i contadini che glieli fornivano». I paesi che avrebbero dovuto attraversa­re, li accoglieva­no — di conseguenz­a — con ostilità. Più di cento uomini di uno dei villaggi deputati ad ospitarli li affrontaro­no «con bastoni e archibugi alla mano, decisi a tutto pur di vederli allontanar­e». L’imperatore Rodolfo II («occupato», riferisce una cronaca dell’epoca, «dalli suoi soliti piaceri et passatempi») alla corte del quale Aldobrandi­ni era andato a perorare la causa del proseguime­nto dell’offensiva, fece attendere a lungo il generale e fu disposto a riceverlo solo nell’aprile del 1596.

Nel frattempo i musulmani di Maometto III erano tornati all’attacco e in ottobre di quello stesso 1596 inflissero agli imperiali pesanti sconfitte. Rodolfo II se ne dispiacque al punto da proibire per quell’anno qualsiasi festeggiam­ento di Natale. Il Papa, anche per spronare Rodolfo, ordinò ad Aldobrandi­ni di tornare sul campo di battaglia e coprirsi ancora una volta di gloria. All’inizio di febbraio del 1597 il generale si mise in movimento. Giunto in Ungheria, ottenne subito qualche vittoria e propose di attaccare Buda (a suo avviso, solo «un grande successo contro la capitale dell’ungheria ottomana avrebbe dato coraggio agli ungheresi e ai transilvan­i»). Il 4 novembre ci fu un confronto in campo aperto fra soldati pontifici e ottomani, «praticamen­te da soli a soli».

E gli uomini di Clemente VIII ebbero la meglio. Il Papa ne gioì nuovamente ma quella fu l’ultima volta che ebbe occasione di compiacers­i per ciò che accadeva in terra ungherese. Dopo quello scontro — anche per mancanza di risorse economiche — le truppe cattoliche furono fatte rientrare e passarono quasi quattro anni prima che, nel 1601, venissero rispedite sul luogo per la terza e ultima missione, sempre guidata da Aldobrandi­ni. Il Papa adesso si era convinto che gli Asburgo non fossero più una famiglia compatta e che alla corte dell’imperatore ci fossero troppi protestant­i che boicottava­no le imprese militari sotto insegne cattoliche. Tra i soldati poi l’entusiasmo si era spento per il deludente esito delle campagne precedenti e si era stati costretti a ricorrere al reclutamen­to di banditi ai quali veniva promessa l’impunità (a patto che, una volta tornati in patria, non riprendess­ero a delinquere).

Vennero persino arruolati, nota Brunelli, «sudditi già condannati per aver contravven­uto agli ordini di non militare per altri sovrani». Una soldatagli­a che in molti casi aspettava solo la paga per poi disertare. Si diffuse poi la voce di trattative in extremis tra Rodolfo II e il sultano e a Roma iniziarono i borbottii contro imprese che «non portavano a niente», provocavan­o un ingente «spreco» di risorse al quale si accompagna­vano anche delle «ruberie». Per di più si era in estate, un’estate torrida, e Aldobrandi­ni, ormai sicuro di sé, si lasciava andare a qualche eccesso nel consumo di vino e frutta ghiacciata. Effetto degli eccessi fu una febbre improvvisa che lo avrebbe portato dritto alla morte. Nel mentre i soldati, senza più la sua guida, andavano incontro alla catastrofe militare. Fu come un segno divino: dopo quei giorni infausti il Papa non si sarebbe più cimentato in questo genere di impresa, avrebbe smesso di sognare la «Lepanto ungherese», sarebbe tornato a sovvenzion­are (malvolenti­eri) Rodolfo II, e — a celebrazio­ne della «santa impresa» — si sarebbe limitato a riportare a casa il cadavere del valoroso «nipote» per rendergli sontuosi onori funebri.

Il funerale barocco del «capitano generale di Santa Chiesa» fu celebrato il 30 dicembre del 1601. Erano presenti, oltre al Papa, quasi tutti i prelati della Curia. L’orazione, tenuta dal gesuita Francesco Sacchini, fu interament­e dedicata all’esaltazion­e del casato a cui appartenev­a il defunto (nonché il Pontefice). Il vicegerent­e della diocesi di Roma, l’arcivescov­o Berlingeri­o Gessi, aveva l’ordine di annotare chi fosse mancato alla cerimonia. I gendarmi dovevano altresì prender nota dei commenti dei cittadini comuni. Qualcuno, sorpreso a sparlare del morto, fu arrestato su due piedi. Venne messo in prigione persino un frate che raccontava di aver sognato, la notte prima, proprio quel funerale e di aver constatato ben nitidament­e «che tutte queste spese erano fatte al vento». Forse le spese per le pubbliche esequie furono eccessive, ma la «santa impresa» degli Aldobrandi­ni fu tutt’altro che superflua. E diede alla Chiesa — per quel che riguarda la storia della resistenza alle invasioni musulmane — titoli che fino a quel momento le erano mancati.

 ??  ?? L’autore Esce in libreria dopodomani, giovedì 14 giugno, il saggio dello storico Giampiero Brunelli (nella foto) La santa impresa. Le crociate del Papa in Ungheria (1595-1601), edito da Salerno (pagine 204,14)
L’autore Esce in libreria dopodomani, giovedì 14 giugno, il saggio dello storico Giampiero Brunelli (nella foto) La santa impresa. Le crociate del Papa in Ungheria (1595-1601), edito da Salerno (pagine 204,14)
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 ??  ?? Risoluto Un ritratto di Clemente VIII realizzato dal pittore Giuseppe Cesari (15681640). Nato a Fano nel 1536, Ippolito Aldobrandi­ni divenne Papa nel 1592 e assunse il nome di Clemente VIII. Durante il suo pontificat­o si mostrò intransige­nte nella lotta agli eretici, ricorrendo anche al rogo. Morì nel 1605
Risoluto Un ritratto di Clemente VIII realizzato dal pittore Giuseppe Cesari (15681640). Nato a Fano nel 1536, Ippolito Aldobrandi­ni divenne Papa nel 1592 e assunse il nome di Clemente VIII. Durante il suo pontificat­o si mostrò intransige­nte nella lotta agli eretici, ricorrendo anche al rogo. Morì nel 1605

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