GLI AVVOCATI D’UFFICIO, SALVINI E I DIRITTI (NON) PRESI SUL SERIO
Non sarebbe superfluo che chi fa il ministro dell’interno conoscesse la differenza tra avvocato d’ufficio e gratuito patrocinio: cioè tra l’avvocato che nel penale lo Stato assegna a chi non ne nomini uno di fiducia (a prescindere dal reddito e con spese sempre a carico del difeso), e invece il legale che in qualunque procedimento lo Stato paga a chi sotto 11.528 euro di reddito sia ammesso dall’ordine forense. E comunque l’avvocato d’ufficio non andrebbe «né banalizzato né volgarizzato, se non altro — evoca il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin — per rispetto di chi, come Fulvio Croce, per aver difeso questo istituto fu ucciso nel 1977 a Torino dalle Br». Ma, soprattutto, quando Matteo Salvini dice di voler «contrastare la lobby degli avvocati d’ufficio» per ridurre mole e tempi delle domande d’asilo dei migranti, in quanto «tutti fanno ricorso in automatico perché lo Stato garantisce un avvocato d’ufficio che paghiamo tutti noi», mostra di non credere nei diritti presi sul serio, peraltro già compressi nel 2017 dalla legge Minniti-orlando che solo per i richiedenti asilo cancellò il grado d’appello e restrinse proprio il gratuito patrocinio. O è effettivo o non esiste il loro diritto (art. 10 della Costituzione) di domandare (art. 24 sul diritto di difesa non sacrificabile ad altre esigenze) che almeno una volta siano giudici civili a valutare le ragioni della loro richiesta di protezione, ove negata in prima battuta dalle Commissioni amministrative territoriali espresse dal Viminale (con un membro Unhcr). Salvini conteggia «nel 58% le domande respinte», ma glissa su quanti rigetti amministrativi siano poi ribaltati dai giudici: 67%, stando alla «proiezione empirica» fornita nel 2017 dal prefetto che al Viminale presiedeva la Commissione per il diritto di asilo.