La festa del calcio come un summit dell’era sovietica
Cerimonia inaugurale veloce e minimale, un discorso presidenziale non brillante Acclamato Putin, la tribuna d’onore pare un vertice di partiti fratelli della vecchia Urss più che una vetrina del mondo libero: Robin Williams protagonista, ma canta in play
Quattro anni fa i brasiliani fischiarono la presidenta Dilma; ieri i russi hanno acclamato Putin, interrompendo con un’ovazione un discorso né breve né brillante. Sventolio di bandiere.
Gli unici fischi vengono dal settore stampa.
MOSCA L’orgoglio russo parla con la musica di Ciajkovskij, l’uccello di Fuoco di Stravinskij, la tradizione circense degli acrobati, e soprattutto con le parole di Putin. Quattro anni fa i brasiliani fischiarono la presidenta Dilma; ieri i russi hanno acclamato il loro capo, interrompendolo con un’ovazione, nonostante il discorso né breve né brillante: la fratellanza sportiva, «l’umanesimo del calcio», la Russia «aperta, ospitale, accogliente». Sventolio di bandiere. Gli unici fischi vengono dal settore stampa.
La tribuna d’onore sembra un vertice di partiti fratelli dell’unione Sovietica, più che una vetrina del mondo libero. Ecco il caro presidente azero Ilham Aliyev, che non è solo omonimo ma pure figlio di Heydar Aliyev, fondatore della dinastia che tranne qualche deprecabile interruzione regna a Baku dal 1969. Sta conversando con il collega armeno Nikol Pashinyan, si presume non sul 4-4-2 della Nazionale russa ma sulle sorti del Nagorno-karabakh regione contesa. Ecco il mitico Nursultan Nazarbaev, che ha preso il potere in Kazakhstan subito dopo il crollo del Muro e non l’ha più mollato; al suo confronto pare un sincero democratico il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman, che è qui un po’ per tifare un po’ per concordare con Putin il calo delle estrazioni di petrolio in modo da far ulteriormente aumentare i prezzi.
Insomma come d’abitudine tra le poltronissime si compra e si vende. Dall’europa non è venuto quasi nessuno tranne Schröder, ormai un famiglio. Ecco il caudillo rosso Maduro, che pure avrebbe altro da fare, e il presidente del «libero» Parlamento nordcoreano Kim Yong-nam, molto inquadrato dalle telecamere; ignorati il kirghiso e il moldavo; l’abkhazo e l’osseto del Sud non li riconosce quasi nessuno.
La Russia si presenta con il sole fresco di una Mosca mai stata così bella, dopo aver costruito centinaia di chilometri di marciapiedi in due anni, gallerie d’arte contemporanea che ospitano affollatissime mostre del graffitaro anticapitalista Banksy, rifatto lo stadio olimpico vigilato dalla statua di Lenin e dai marchi degli sponsor.
La cerimonia inaugurale è veloce e minimale. Robbie Williams canta in playback clamoroso e alza pure il dito medio. Ronaldo si è messo a dieta per l’occasione, senza grandi risultati. La partita riesce abbastanza penosa. L’arabia è stata scelta per non rovinare la festa, e svolge diligentemente il compito. Il judoka Putin, che gioca a hockey ma fatica con il calcio, segue imbarazzato: a ogni gol non esulta ma si alza a stringere la mano al principe Salman, come per chiedergli scusa; al quinto allarga le braccia sconsolato. Era più a suo agio la sera prima sulla Piazza Rossa, quando ha accennato la Donna è Mobile, dicono discretamente, e pure il Vincerò della Turandot, pare malissimo.
Russi felici. Visti padri in giacca e cravatta con figli per mano. Si sfila tra due ali di militari, tipo prigionieri di guerra. Ancelotti, che è qui come commentatore della tv messicana, riconosciuto mentre va in bagno e preso d’assalto per i selfie. Putin saluta Sarkozy e accenna a un inchino col capo verso la vicepremier cinese Sun Chunlan. Il momento più emozionante è quando risuona — cantato da tutto il pubblico, e da migliaia di giovani senza biglietto saliti sulle colline vista stadio — il meraviglioso inno russo, che è poi quello sovietico, commissionato da Stalin in piena guerra mondiale. Abbandonato dopo il crollo dell’urss, lo reintrodusse Putin, dopo aver notato che all’olimpiade di Sydney 2000 nessun atleta russo cantava l’inno nuovo. Il testo fu affidato al poeta Sergej Vladimirovi Michalkov, lo stesso del 1944, che dimostrò versatilità: dove c’era «Lenin» mise «Dio» o «patria», dove c’era «comunismo» mise «fede».
Del resto, come spiega Sergio Romano nel suo saggio su Putin, «la Russia si è sempre identificata con un’ideologia». Non si tiene insieme un impero, un Paese da undici fusi orari, un crogiolo di etnie senza una visione o un credo. Mosca è stata per secoli la «terza Roma», l’erede dei Cesari e di Bisanzio, la protettrice dell’ortodossia e dei popoli slavi. Poi, dopo il 1917, si è fatta apostolo di un altro culto messianico: il comunismo.
Tra la Russia bianca e quella rossa, tra l’ortodossia religiosa e quella marxista, Putin ha scelto la prima: ha riaperto chiese e monasteri, si è fatto fotografare mentre venera le reliquie dei santi, ha ripristinato le onorificenze zariste. Ma non ha fatto nulla per contrariare i nostalgici di Stalin (esistono) e della gelida notte brezneviana. I germi del totalitarismo non passano come quelli del raffreddore, e la Russia ne è ancora intrisa, compreso il gusto per le leadership solitarie.
L’apertura è un progetto che rischia di restare una velleità, se Putin non darà veri segni di cambiamento, se continuerà a far processare gli oppositori — sulla testa del blogger Navalny pendono cinque anni di galera con la condizionale, il fratello è in prigione —, se la società civile non si farà sentire con maggior forza. Ma sarebbe miope negare lo slancio dei russi verso l’europa e il mondo globale. Per descriverlo restano valide le parole con cui Caadaev, lo scrittore che gli slavofili avevano fatto passare per pazzo, lasciò prima di morire nell’aprile 1856 a proposito delle riforme di Pietro il Grande: «Aprì la nostra intelligenza a tutto ciò che esiste, fra gli uomini, di idee grandi e belle; ci consegnò all’occidente intero, quale i secoli lo avevano fatto; e ci diede come storia tutta la sua storia, come avvenire tutto il suo avvenire».