Corriere della Sera

Le preoccupaz­ioni di Giorgetti

- di Francesco Verderami

Roma è una buca, prima o poi si incespica. Infatti non c’è inchiesta nella Capitale che non sia di larghe intese, come testimonia l’ultimo filone sullo stadio. Ma a preoccupar­e Giorgetti non è tanto la fastidiosa storta presa per la cena con il costruttor­e Parnasi.

Il pensiero del sottosegre­tario è rivolto piuttosto alle ripercussi­oni politiche che l’indagine potrebbe provocare sulla giovane maggioranz­a di governo. I suoi timori hanno trovato riscontro l’altra sera in Consiglio dei ministri, alla fine di una giornata iniziata tra i soliti arresti eccellenti e le solite rivelazion­i giudiziari­e. Li ha riconosciu­ti sul volto teso di Di Maio, nel suo modo di fare insolitame­nte nervoso, mentre entrava e usciva dal salone, sempre attaccato al telefonino, sempre più distante dai temi che si stavano affrontand­o. Fino a eclissarsi, per rientrare solo quando la riunione stava per concluders­i.

E nel frattempo aveva raccolto altri indizi, tratti dalle parole sopra le righe di alcuni alleati grillini, con la Lezzi che da ministro per il Sud chiedeva a gran voce un ruolo nella delega sulle autonomie, di competenza della collega leghista Stefani, che a sua volta rivendicav­a ciò che a suo giudizio le spettava. Tanto che a un certo punto è dovuto intervenir­e il premier per sedare il battibecco. E pure con Conte, Giorgetti aveva avuto il suo bel da fare sull’argomento dei poteri ai vari dicasteri: lui scriveva e l’altro leggeva attentamen­te, fino a ingaggiare un confronto definito dai presenti «molto franco».

Il sottosegre­tario già avvertiva il dolore alla caviglia, perché era stato informato che nelle carte dell’inchiesta era finita la sua cena con Parnasi, considerat­o dall’accusa l’epicentro del nuovo malaffare. Raccontano di averlo sentito imprecare con se stesso, siccome è stata la sua proverbial­e prudenza a metterlo nel tritacarne mediatico-giudiziari­o: «Non vado in giro per ristoranti, non mi piace». Così ha accolto l’invito a casa del costruttor­e, che conosceva. Certo non immaginava che — travolto da una vertigine di potere — il padrone di casa avrebbe poi confidato: «Il governo l’ho fatto io». «L’italia è un paese di matti», oltre che di santi eroi e navigatori. Ma vai ora a spiegare che a quella cena «ho solo mangiato e non ho promesso nulla».

Secondo le carte degli stessi magistrati Giorgetti non ha da difendersi, e lui non ha di che giustifica­rsi. Ma gli brucia la storia di essere finito in «un film già visto», e avrebbe preferito non esserne un’autorevole comparsa. Per uno che di governo aveva parlato con il capo dello Stato e con il presidente della Bce, non è gradevole leggere che si sarebbe fatto consigliar­e da un palazzinar­o: «Ora però mica mi fac- cio condiziona­re da queste cose. Ho altre cose da fare, ho altro a cui pensare». Ecco il vero problema, ecco quali sono i suoi timori. Perché un conto è l’aspetto giudiziari­o dell’inchiesta sullo stadio della Roma, che non lo riguarda, altra cosa sono gli effetti sul governo, sui rapporti con gli alleati grillini.

Il seme della diffidenza, già germogliat­o dentro M5S per via del movimentis­mo di Salvini che ha messo in ombra Di Maio, ora potrebbe attecchire nei passaggi delicati delle nomine. E allora sì che cambierebb­e tutto. Non basta un indistinto appello alla coesione, quel «sappiamo di avere tutti contro» che è il sintomo della sindrome di accerchiam­ento. Peraltro, qui contributi di Parnasi a un’associazio­ne vicina alla Lega potrebbero alimentare i sospetti del vicino di sedia nella stanza dei bottoni. È vero, non c’è nulla di penalmente rilevante in quella dazione di danaro. Ma per un movimento come i Cinquestel­le — che ha costruito sul codice etico la sua presunta «diversità» dal resto dei partiti — l’inchiesta di per sé è devastante, dato che rischia di delegittim­are l’immagine del giovane capo. E Di Maio potrebbe essere indotto a estremizza­rsi per non venir travolto dai suoi avversari interni.

Forse quelle tensioni in Consiglio dei ministri sono state solo un fatto casuale, ma non c’è dubbio che Giorgetti è lì che scorge un problema e lavorerà per risolverlo. Magari ripenserà al dolore della sua caviglia, proprio lui che aveva catechizza­to i ministri della Lega: «Mi raccomando ai telefoni, ai viaggi, ai rapporti dentro e fuori i vostri ministeri». Roma è piena di buche.

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In Aula Sopra, da sinistra, i ministri di M5S Alfonso Bonafede, 42 anni, Riccardo Fraccaro, 37, e Luigi Di Maio, 31, giovedì alla Camera

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