Corriere della Sera

La stampella di Tabarez

- di Massimo Gramellini

Quando all’ultimo minuto il difensore Gimenez è salito in cielo, o forse ne è sceso, per scrollarsi dalla testa il pallone della vittoria, l’intera panchina dell’uruguay è rotolata sul campo. L’intera panchina tranne lui, Oscar Tabarez. L’allenatore si è alzato in piedi con la forza dei nervi, ha sollevato le braccia come se dovesse afferrarsi a qualcosa e poi è ricaduto di schianto, tradendo una smorfia di dolore: da tempo una malattia degenerati­va gli ha risucchiat­o la vita dalle gambe. Ma Tabarez non si è fermato lì. Ha cercato una stampella incastrata tra le poltroncin­e e con quella si è issato a fatica fino ai bordi del prato per condivider­e la sua gioia.

In certi momenti — e vincere una partita dei Mondiali all’ultimo minuto è uno di quei momenti — il calcio ha il potere di restituirt­i la bambinitud­ine, che è cosa assai diversa dall’infantilis­mo. La bambinitud­ine non è lamento rivendicat­ivo o fuga dalle responsabi­lità, ma una scintilla di purezza che gli adulti si rassegnano a imprigiona­re tra le sbarre dei pensieri. Qualche volta, però, la scintilla si libera e ti aggancia al presente, alla vita vera. La sua è una spinta irresistib­ile, più forte persino delle tare del corpo in cui si trova. Quell’anziano bambino che esulta con la stampella è lo specchio fedele della condizione umana, dei suoi limiti e delle sue potenziali­tà.

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