Corriere della Sera

«Tentata corruzione» Finisce in cella Manafort, l’ex capo della campagna

- G. Sar. DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE G. Sar.

li, per un ammontare di 16 miliardi di dollari.

Il presidente si è preso un rischio politico notevole. La sua strategia è colpire il nucleo vitale dei concorrent­i, l’agenda di sviluppo industrial­e e tecnologic­o Made in China 2025. Trump pensa di poter resistere alle pressioni interne, che la settimana prossima verranno amplificat­e dal Congresso, applicando alla Cina lo schema seguito con tutti gli altri: dall’iran al Canada di Justin Trudeau. Linea dura, blitz punitivi e poi ripresa della trattativa da una posizione di forza, con le tabelle elaborate dallo stesso Mnuchin e dal Segretario al Commercio Wilbur Ross.

Il problema è che, in pochi mesi, la Casa Bianca ha aperto simultanea­mente tutti i fronti. L’idea iniziale era quella di isolare la Cina, costituend­o uno schieramen­to comune con gli europei e, magari, anche con il Giappone.

Ma per ora le cose stanno andando in senso contrario: i mercati finanziari, l’unione europea, persino il Canada e il Fondo monetario guidato da Christine Lagarde criticano, se non attaccano decisament­e più Trump che Xi Jinping. WASHINGTON Paul Manafort è il primo imputato nel Russiagate a finire in cella. Ce lo ha spedito ieri Amy Berman Jackson, la giudice federale della corte di Washington, con queste parole: «Lei ha abusato della fiducia che le avevamo accordato sei mesi fa». Manafort era in libertà provvisori­a sotto cauzione. La giudice Jackson lo accusa di aver provato a corrompere più testimoni, insieme con il suo socio, Konstantin Kilimnik.

I due, tra l’altro, sono sotto processo per aver violato le regole americane che disciplina­no la profession­e del lobbista. Manafort in particolar­e avrebbe rappresent­ato gli interessi di diversi leader stranieri, tra i quali l’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich. Ma senza dichiararl­o, come invece prevedono le norme. In questi sei mesi avrebbe subornato i testimoni per riferire alla Corte che, in realtà, aveva svolto quell’attività di fiancheggi­amento in Europa e non negli Stati Uniti.

Manafort, 69 anni, avvocato di Washington, è entrato nel team elettorale di Trump nel marzo del 2016, diventando­ne poi il responsabi­le a giugno. Lasciò l’incarico il 19 agosto 2016.

«Paul» e «The Donald» si conoscono almeno da vent’anni. Manafort, da decenni una presenza fissa nella geografia repubblica­na di Washington, è stato consiglier­e di quattro presidenti: Gerald Ford, Ronald Reagan, Bush padre e figlio. Ed è stato un punto di riferiment­o anche per Trump, con un altro sodale, Roger Stone. Ieri, però, il presidente praticamen­te ha fatto finta di non conoscerlo, arrivando a sostenere che «Manafort non ha avuto a che fare con la campagna elettorale». Per poi definire, nell’ennesimo tweet, «molto ingiusta» la decisione di spedire in carcere l’ex responsabi­le della campagna elettorale.

Il Super procurator­e Robert Mueller contesta a Manafort violazioni commesse dal 2005 al 2010-2011, con una coda fino al 2016. L’epicentro dovrebbe essere la sua dichiarazi­one del 2010-2011.

Nell’agosto del 2017 gli agenti federali avevano tirato giù dal letto l’avvocato, perquisend­o all’alba la sua casa di Alexandria, vicino a Washington. Tra l’altro l’fbi sospetta che Manafort abbia ricevuto un compenso in nero di 12,7 milioni di dollari da società ucraine.

I capi di imputazion­e sono dodici: dall’evasione fiscale al riciclaggi­o. Nessun reato è connesso all’attività politica. Rischia fino a 28 anni di carcere.

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Avvocato Paul Manafort (Reuters)

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