Il patto che dà un nome alla terra di Alessandro
L’ex repubblica jugoslava può usare la parola contesa
Alla fine il buon senso ha prevalso. Dopo quasi trent’anni di bisticci linguistici, greci e macedoni si sono accordati sul nome della terra che ha dato i natali a Filippo e soprattutto a suo figlio Alessandro: l’allievo di Aristotele che conquistò una grande parte del mondo conosciuto sino al subcontinente asiatico e passò alla storia come il «re dei re».
Fu forse il primo condottiero che non si accontentò di territori e beni terreni. La sua maggiore preoccupazione, nel corso delle sue trionfali spedizioni, fu quella di costruire, insieme a un impero, un monumento a se stesso. Ne affidò il compito a un drappello di poeti, storici e filosofi che viaggiavano con i suoi eserciti e diffondevano l’immagine eroica di un uomo quasi divino.
Alessandro fu certamente greco, ma una parte della sua Macedonia, ai confini con la Bulgaria, è divenuta nel corso dei secoli prevalentemente slava. È stata lungamente provincia dell’impero bizantino, poi per un periodo altrettanto lungo dell’impero ottomano e infine, nel Ventesimo secolo, repubblica federata di uno Stato balcanico creato nel 1919 dal Trattato di Versailles e trasformato, dopo la Seconda guerra mondiale, nel più eterodosso degli Stati comunisti. La Jugoslavia sopravvisse grazie alla Guerra fredda.
Finché l’europa fu divisa in due blocchi contrapposti, l’esistenza fra l’uno e l’altro di un cuscinetto neutrale giovava a entrambi. Terminata la guerra fredda le principali nazionalità della Jugoslavia si separarono e divennero indipendenti.
Per essere indipendente, naturalmente, un Paese deve avere un nome con cui essere Italia identificato. Ma non appena la Macedonia presentò ailolnaio società internazionale il suo biglietto da visita, il governo di Atene obicedtstò che il nome di una regione greca (quella di cui il capoluogo è Salonicco) non poteva essere utilizzato per definire un altro Stato. Abbiamo assistito così per quasi trent’anni alla versione diplomatica del poema eroicomico di Alessandro Tassoni. Le secchia rapita, in questo caso, non era il trofeo che i modenesi aveva- no rubato ai bolognesi dopo averli sconfitti in battaglia. Era Alessandro Magno di cui i macedoni slavi del nord, secondo i nazionalisti greci, avrebbero potuto appropriarsi insieme a un po’ di territorio. Questi timori mi sono sembrati esagerati, ma i nazionalismi sono raramente razionali.
La faccenda non avrebbe avuto grande importanza se la Grecia non fosse stata membro dell’ue e quindi in condizione di bloccare con il suo veto l’adesione della nuova Macedonia alla maggiore organizzazione europea. Fu adottato uno stratagemma e la Macedonia del Nord fu chiamata per un lungo periodo con cinque parole: «Former Yugoslav Republic of Macedonia (Fyrom)». Una tale denominazione («ex repubblica jugoslava di Macedonia») era poco dignitosa e
ricordava quelle insegne di negozi in cui il nome del vecchio proprietario è preceduto da «figli» o «eredi».
Il Paese aveva diritto a un nome più serio («Macedonia
del Nord») e lo ha ottenuto grazie a due fattori : in primo luogo il presidente del consiglio greco, Alexis Tsipras, che ha dato prova dello stesso buon senso con cui ha gestito la questione dell’euro; in secondo luogo il passaggio del tempo. La manifestazione di piazza Syntagma ha dimostrato che i vecchi nazionalisti non sono scomparsi; ma le nuove generazioni hanno altre preoccupazioni e altri interessi.
Il caso macedone non è il solo esempio dell’importanza che le denominazioni geografiche e politiche hanno nella storia dei rapporti internazionali.
Dopo la fine dell’era coloniale, molti Paesi hanno riesumato i loro vecchi nomi o nel peggiore dei casi, quando se n’era perduta la memoria, li hanno inventati. Esiste poi un caso che sembra essere l’esatto opposto di quello macedone.
Quando i nazionalisti cinesi, sconfitti dalle forze di Mao Zedong, fuggirono dal continente e si installarono nell’isola di Formosa, portarono con sé il nome dello Stato e divennero la Cina in esilio. Oggi molti vorrebbero separarsi definitivamente dal continente e preferiscono usare il nome cinese dell’isola (Taiwan).
Ma i cinesi di Pechino non vogliono rinunciare alla speranza di riprendersi l’isola e preferiscono che continui a chiamarsi Cina. Non sembrano avere intenzioni ostili. Ma il nome rappresenta pur sempre un certificato di proprietà che può uscire dal cassetto al momento giusto.