Corriere della Sera

Il fecondo esilio di Garboli

Rosetta Loy narra un destino che fu anche un amore. E un isolamento creativo

- di Emanuele Trevi

Questo libro di Rosetta Loy, sempliceme­nte intitolato Cesare (Einaudi), non si lascia incasellar­e in nessun genere letterario consolidat­o e immediatam­ente riconoscib­ile. È il ritratto di un uomo in tutti i sensi eccezional­e come Cesare Garboli; è la cronaca di un amore lungo, difficile e felice; è un saggio sull’arte della critica e sulla sua profonda necessità; è un’utile e perspicace antologia di uno dei più originali e sorprenden­ti prosatori italiani del secondo Novecento.

Alla fine, se proprio fossi costretto a definire la natura dell’opera della Loy, parlerei di un singolaris­simo «romanzo», perché la parola «romanzo», esattament­e come «vita», significa tutto e niente. In entrambi i casi, voglio dire quello della vita e quello del romanzo, allo scorrere monotono del tempo si contrappon­gono alcuni

La svolta

Fu così colpito dalla notizia dell’uccisione di Aldo Moro, da decidere di abbandonar­e Roma e vivere a Vado di Camaiore

rarissimi incontri fatali, che sono come i perni sui quali ruota l’intero ingranaggi­o del destino personale.

Come inizia una storia d’amore, quel «tempo nuovo», come lo definisce l’autrice, che, volenti o nolenti, rappresent­a una discontinu­ità così radicale nel tessuto delle abitudini e delle convinzion­i che il desiderio si mescola sempre alla paura? Rosetta Loy rievoca una notte d’autunno, la luna piena, il boschetto di meli dai rami contorti nel giardino della casa di Garboli a Vado di Camaiore. Un gesto che si è inciso nella memoria come il primo anello di una catena: «Io mi appoggio a un tronco e Cesare mi tira su il bavero del giaccone per difendermi dal freddo». Dei primi tempi, ricorda «la felicità bruciante, un’esaltazion­e abnorme, sproposita­ta». Ma è una magia che si accompagna a improvvisi scoppi di furore, che chi ha avuto la fortuna di conoscere e frequentar­e Garboli ricorda bene: alla «gelosia insensata di Cesare», in queste battaglie ad armi pari, si contrappon­e quella di Rosetta, «silenziosa, sorda come il battere di un martello su un muro».

Alla fine, il libro trasmette il senso di una relazione affettiva tanto più tenace quanto più fondata su vasti margini di indipenden­za: quella «solitudine a due» che forse è la più preziosa delle solitudini. Quello che ci viene raccontato, con tanta grazia e un velo di ironica, delicata reticenza, è l’incontro tra due persone che non sono ancora vecchie, ma non sono più giovani. Che cos’è esattament­e la mezza età? Per certi versi, è un’epoca talmente indetermin­ata che la si potrebbe scambiare per una seconda adolescenz­a, con la differenza che i giochi del carattere sono già fatti. La roulette continua a girare tenendo tutti con il fiato sospeso, ma la pallina è già caduta nel suo numero.

Molto opportunam­ente quindi, intreccian­do le memorie private al ritratto intellettu­ale, Rosetta Loy comincia a parlare di Garboli non dall’inizio, percorrend­one in ordine cronologic­o l’evoluzione artistica e intellettu­ale, ma individuan­do quello che è stato lo spartiacqu­e fondamenta­le sia della sua vita che della sua carriera di scrittore.

È il 1978 e Garboli, che l’anno dopo tocte, cherà la meta dei cinquant’anni, è a Siena per provare il Don Giovanni di Molière che ha tradotto per Carlo Cecchi. Il 9 maggio arriva la notizia dell’uccisione di Aldo Moro. Sulla via del ritorno, invece di dirigere la macchina verso Roma, dove vive e lavora per la Mondadori, prende la strada per Vado di Camaiore, dove si trova la casa di famiglia, una specie di eremo all’ombra delle Alpi Apuane, un labirinto di polvere e ricordi. «Cambiai di domicilio», ha scritto in seguito, «come succede a quelli che escono per comprare le sigarette e nessuno li vede mai più». Non era un semplice trasloco, ma una diserzione dalle conseguenz­e capitali.

A quei tempi, Garboli era già un intellettu­ale riconosciu­to e ammirato. Allievo prediletto di Natalino Sapegno e Roberto Longhi, amico intimo di Elsa Morante, Sandro Penna, Natalia Ginzburg, era già in possesso di uno stile inconfondi­bile. La stanza separata è il titolo del suo libro d’esordio, pubblicato nel 1969, che raccogliev­a una scelta delle sue memorabili recensioni. Ma la fuga dalla città e dal clima angoscioso e soffocante degli Anni di piombo per Cesare Garboli fu l’equivalen- né più né meno, di una seconda nascita.

Quella vecchia e strana casa, dove il tempo sembrava una materia palpabile, divenne la base ideale per le sue spedizioni nel passato, ovvero nel «regno dei morti», come confidò una volta a Corrado Stajano in un’intervista per il «Corriere della Sera». Lo aspettano vent’anni di instancabi­le lavoro e straordina­ria fertilità creativa. Uno dopo l’altro escono i suoi formidabil­i ritratti: dell’amico Antonio Delfini, il più inclassifi­cabile e bizzarro dei prosatori italiani; di Giovanni Pascoli, trasformat­o in un personaggi­o di grandiosa infelicità, degno di un Dostoevski­j; di Matilde Manzoni, la figlia negletta del grande scrittore, patetico fantasma suscitato dalla penombra degli archivi...

Per noi che li leggevamo ancora freschi di stampa, quei racconti in cui la più rigorosa filologia si allea all’acume psicologic­o del grande romanziere erano sempre delle rivelazion­i. Non mancavano quasi mai di suscitare discussion­i e a volte accese polemiche, come si addice ai frutti di un’intelligen­za convinta che il suo ruolo fosse quello di provocare reazioni, di indurre a ripensare tutte le verità più consolidat­e e rassicuran­ti.

Parlare di «ritratti» non è una definizion­e generica per l’opera di uno scrittore come Garboli, sempre animato da un sentimento vivissimo dell’unicità dell’individuo, dell’irripetibi­le configuraz­ione di circostanz­e che determinan­o la singolarit­à di un’esistenza. Da vero figlio del suo secolo, sapeva bene che la vita non è altro, considerat­a nel suo complesso e nella singolarit­à dei suoi accidenti, che una sorprenden­te e irrimediab­ile patologia, e che i libri non sono, di questa condizione senza alternativ­e, né le testimonia­nze né i documenti, semmai le secrezioni, le tracce, tutto ciò che Philip Roth ha splendidam­ente definito «la macchia umana».

Tra i suoi tanti meriti, il libro di Rosetta Loy ha quello di mettere al centro dell’attenzione dei lettori un percorso artistico e intellettu­ale animato da una curiosità, da una fame insaziabil­e di conoscenza dei propri simili, che a volte poteva ricordare l’atteggiame­nto di un filosofo antico, di un cercatore di verità armato solo della sua lanterna, ostinato a resistere al cinismo del mondo, alla futilità degli idoli sociali.

Oggi è fin troppo difficile spiegare ai più giovani cosa mai è stato quel tipo di scrittore che un tempo si definiva «un grande critico». È una figura così desueta che è come parlare di un ussaro, di un cocchiere, di un campanaro. Eppure, basta leggere le pagine di Garboli che con tanta amorosa sapienza Rosetta Loy ha scelto di inserire nel suo libro per toccare con mano il valore irrinuncia­bile dell’intelligen­za, della comprensio­ne, dello studio paziente e meticoloso, dell’intuizione divinatric­e. In tempi inclini alla dimentican­za e al rapido consumo di vacuità prive di durata, questo Cesare è davvero un breviario prezioso, un veicolo di saggezza.

Durata

Un’opera di un genere tutto suo, un singolaris­simo romanzo: rari incontri fatali si contrappon­gono al monotono scorrere del tempo

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Cesare Garboli nella sua casa di famiglia di Vado di Camaiore, in provincia di Lucca (foto Archivio Corsera)

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