Corriere della Sera

La ricerca (spericolat­a) del consenso

- Di Massimo Gramellini

Dopo due settimane parlate pericolosa­mente, l’irresistib­ile linea «cattivista» di Salvini conosce il primo inciampo. Succede per colpa di un vocabolo — censimento — che ha ancora il potere di evocare fantasmi, quando viene associato a una minoranza etnica. Nella sua inesausta attività social, il ministro dell’interno e delle interiora (intese come pulsioni profonde) ha annunciato, in singolare coincidenz­a temporale, il censimento dei campi rom e una sua imminente visita al Papa meno salviniano che si possa immaginare. Finora le sortite del leghista in capo avevano goduto di una certa benevolenz­a mediatica.

Dettavano l’agenda politica senza incontrare altri ostacoli che l’indignazio­ne, ininfluent­e e scontata, della sinistra in disgrazia. Stavolta invece qualcosa è andato storto. Mentre la Santa Sede negava l’esistenza di un incontro ufficiale tra Francesco I e Matteo II, il poliminist­ro Di Maio alzava per la prima volta la voce contro il dinamico sodale di contratto, ricordando­gli che schedare le persone è una pratica incostituz­ionale. A stimolare l’orgoglio pentastell­ato non sarà stato estraneo l’ultimo sondaggio sulle intenzioni di voto degli italiani, che annunciava il clamoroso sorpasso della Lega sui grillini (29,2% a 29), al culmine di una tendenza che nei primi cento giorni trascorsi dalle elezioni ha visto Salvini crescere inesorabil­mente e Di Maio altrettant­o inesorabil­mente calare. Fiutato il rischio di finire fuori strada, il leader della Lega ha innestato una marcia finora poco usata, quella indietro, spiegando che per censimento dei rom non intendeva certo una schedatura, ma il sopralluog­o dei loro campi. Non ha potuto però smentire l’esito da lui auspicato di quel sopralluog­o: l’espulsione dei rom stranieri, dato che «gli italiani purtroppo ce li dobbiamo tenere». E quel «purtroppo» conteneva l’essenza del suo pensiero. Sarà interessan­te vedere come evolverà il salvinismo. L’uomo che lo interpreta è in sella all’umore del Paese. Gramsci direbbe che ne ha conquistat­o l’egemonia culturale, premessa di quella politica. È lui, non i grillini, a dare il tono al discorso pubblico. Del reddito di cittadinan­za non si parla già più, mentre la retorica nazionalis­ta domina la scena, svariando dal tema della sicurezza a quello delle vacanze autarchich­e, consigliat­e proprio ieri da un Salvini in versione tour operator, nell’ennesima intervista televisiva rilanciata da un tweet e ripresa in un post. Nel momento in cui la Lega diventa virtualmen­te il primo partito italiano, con un vento talmente in poppa da renderla impermeabi­le persino agli scandali, il suo leader si trova di fronte a un passaggio decisivo. Ai disagi creati dall’immigrazio­ne di massa si può infatti reagire in tre modi. Il primo, scelto fin qui dalla sinistra, è quello di negarne l’esistenza e di irridere come insensibil­i o razzisti coloro che pagano sulla propria pelle le difficoltà di un’integrazio­ne male pensata e peggio gestita. Il secondo è il metodo finora proposto da Salvini e consiste nel non limitarsi a denunciare la questione, ma nell’esasperarl­a, come ha spiegato sul Corriere di ieri Antonio Polito. Un vero leader non si limita a cercare il consenso, ma è disposto persino a metterlo in gioco per affrontare sul serio i problemi. E nessun problema complesso come l’immigrazio­ne è mai stato risolto con parole a effetto. Serve un’azione lenta e paziente, a tratti noiosa, non condensabi­le in un tweet e nemmeno in un post. Sarebbe questa la terza strada, finora poco battuta da tutti, e si chiama politica.

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