Corriere della Sera

REGOLAMENT­ARE OPPURE NO? IL DILEMMA DEI BIG DATA

- Di Edoardo Segantini

Dopo l’entrata in vigore del Regolament­o europeo sulla protezione dei dati personali (Gdpr), si è discusso soprattutt­o di privacy. In realtà il tema dei big data — la massa di informazio­ni strutturat­e che fa di ogni persona un «prodotto» — è anche una gigantesca questione di concorrenz­a, di mercato e di governance. Dal momento che i dati sono input fondamenta­li per la creazione di valore nel capitalism­o digitale.

Alcuni esperti — dall’antitrust all’agcom, dall’università Bocconi all’istituto Bruno Leoni — ci stanno ragionando da tempo. E la domanda di fondo è la seguente: le dinamiche competitiv­e legate ai dati, che oggi sono proprietà di quattro o cinque colossi americani, devono essere lasciate alla mano libera di un mercato iper-concentrat­o o, al contrario, diventare oggetto di nuove regolazion­i?

Tra l’altro, come ha scritto nei giorni scorsi il New York Times, Facebook avrebbe stipulato accordi con i produttoma ri di smartphone e tablet, permettend­o loro di accedere ai dati personali di milioni di utenti senza chiederne il consenso.

Da una parte si risponde che i big data non sono duplicabil­i e replicabil­i dai concorrent­i, che il loro possesso rappresent­a una barriera all’ingresso di altri operatori e dunque devono essere sottoposti alla disciplina regolatori­a. Così come accadde, tra gli anni 80 e 90, in Occidente, quando si pose fine ai monopoli telefonici. Il fatto che, in questo caso, non ci siano cavi informazio­ni non cambia la sostanza del ragionamen­to.

Dall’altra parte si sostiene che, in realtà, i dati che identifica­no le persone sono riproducib­ili a costi relativame­nte contenuti, purché si disponga di una tecnologia della «profilazio­ne»: per concludere che l’attuale deregulati­on funziona meglio.

Di sicuro le piattaform­e digitali sono tanto più efficienti quanto più sono grandi. E quanto più vari sono i mercati che servono, poiché questa varietà permette loro di accedere a un numero crescente di dati. Occorre allora chiedersi se non sia la dimensione stessa una barriera all’entrata di altri.

La conseguenz­a qual è? Che l’efficienza della piattaform­a rende gli utenti inerti e indifferen­ti ai temi della privacy. Nel senso che avvertono il beneficio dei servizi offerti e non il fatto che sono resi possibili dai dati personali ceduti in cambio. In questo modo Facebook e gli altri big possono contare sulla solidariet­à degli internauti, i quali diventano i migliori amici degli oligopoli. Come dire? Sudditi consenzien­ti di monarchie al tempo stesso assolute e illuminate. Una massa di manovra imponente da schierare nel confronto con le authority nazionali e transnazio­nali. Ciò che rappresent­a, in qualche modo, una novità storica.

La scelta — regolazion­e o deregulati­on — dipenderà dalle risposte che saranno date a problemi di inedita complessit­à economica, tecnica e giuridica. Se prevalesse la prima, andrebbe creato innanzitut­to un «mercato dei dati» che ora non esiste. Per poi scrivere le norme che dovrebbero regolare la concorrenz­a e, presumibil­mente, favorire la nascita di nuovi operatori: come si fece con le telecomuni­cazioni introducen­do norme «asimmetric­he», sbilanciat­e a favore dei nuovi entranti.

Ma se dovesse prevalere l’approccio del secondo tipo, che è in fin dei conti lo status quo, avremmo forse qualche seccatura «burocratic­a» in meno; ma non potremmo poi lamentarci dell’insorgere di nuovi casi come Cambridge Analytica. L’abuso (in questo caso anche contro la democrazia) nasce più facilmente se il mercato è dominato da pochissimi. Sarà interessan­te capire che cosa pensa dell’argomento il nuovo governo.

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