REGOLAMENTARE OPPURE NO? IL DILEMMA DEI BIG DATA
Dopo l’entrata in vigore del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (Gdpr), si è discusso soprattutto di privacy. In realtà il tema dei big data — la massa di informazioni strutturate che fa di ogni persona un «prodotto» — è anche una gigantesca questione di concorrenza, di mercato e di governance. Dal momento che i dati sono input fondamentali per la creazione di valore nel capitalismo digitale.
Alcuni esperti — dall’antitrust all’agcom, dall’università Bocconi all’istituto Bruno Leoni — ci stanno ragionando da tempo. E la domanda di fondo è la seguente: le dinamiche competitive legate ai dati, che oggi sono proprietà di quattro o cinque colossi americani, devono essere lasciate alla mano libera di un mercato iper-concentrato o, al contrario, diventare oggetto di nuove regolazioni?
Tra l’altro, come ha scritto nei giorni scorsi il New York Times, Facebook avrebbe stipulato accordi con i produttoma ri di smartphone e tablet, permettendo loro di accedere ai dati personali di milioni di utenti senza chiederne il consenso.
Da una parte si risponde che i big data non sono duplicabili e replicabili dai concorrenti, che il loro possesso rappresenta una barriera all’ingresso di altri operatori e dunque devono essere sottoposti alla disciplina regolatoria. Così come accadde, tra gli anni 80 e 90, in Occidente, quando si pose fine ai monopoli telefonici. Il fatto che, in questo caso, non ci siano cavi informazioni non cambia la sostanza del ragionamento.
Dall’altra parte si sostiene che, in realtà, i dati che identificano le persone sono riproducibili a costi relativamente contenuti, purché si disponga di una tecnologia della «profilazione»: per concludere che l’attuale deregulation funziona meglio.
Di sicuro le piattaforme digitali sono tanto più efficienti quanto più sono grandi. E quanto più vari sono i mercati che servono, poiché questa varietà permette loro di accedere a un numero crescente di dati. Occorre allora chiedersi se non sia la dimensione stessa una barriera all’entrata di altri.
La conseguenza qual è? Che l’efficienza della piattaforma rende gli utenti inerti e indifferenti ai temi della privacy. Nel senso che avvertono il beneficio dei servizi offerti e non il fatto che sono resi possibili dai dati personali ceduti in cambio. In questo modo Facebook e gli altri big possono contare sulla solidarietà degli internauti, i quali diventano i migliori amici degli oligopoli. Come dire? Sudditi consenzienti di monarchie al tempo stesso assolute e illuminate. Una massa di manovra imponente da schierare nel confronto con le authority nazionali e transnazionali. Ciò che rappresenta, in qualche modo, una novità storica.
La scelta — regolazione o deregulation — dipenderà dalle risposte che saranno date a problemi di inedita complessità economica, tecnica e giuridica. Se prevalesse la prima, andrebbe creato innanzitutto un «mercato dei dati» che ora non esiste. Per poi scrivere le norme che dovrebbero regolare la concorrenza e, presumibilmente, favorire la nascita di nuovi operatori: come si fece con le telecomunicazioni introducendo norme «asimmetriche», sbilanciate a favore dei nuovi entranti.
Ma se dovesse prevalere l’approccio del secondo tipo, che è in fin dei conti lo status quo, avremmo forse qualche seccatura «burocratica» in meno; ma non potremmo poi lamentarci dell’insorgere di nuovi casi come Cambridge Analytica. L’abuso (in questo caso anche contro la democrazia) nasce più facilmente se il mercato è dominato da pochissimi. Sarà interessante capire che cosa pensa dell’argomento il nuovo governo.