Corriere della Sera

Automazion­e e crisi economica Ma l’ozio creativo salverà il lavoro

- Di Carlo Bordoni

Non si è mai parlato tanto di lavoro se non da quando ha cominciato a mancare. Colpa della tecnologia, si dirà: eppure, secondo Michel de Certeau, l’innovazion­e tecnologic­a non precede, ma segue sempre il mutamento sociale. Non è che la conseguenz­a di nuove esigenze economiche. Proprio partendo dalle dinamiche sociali, torna a parlare delle problemati­che del lavoro Domenico De Masi, che a questo tema si dedica da una vita.

Al primo sguardo Il lavoro nel XXI secolo (Einaudi) può apparire come la risposta al Capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty (Bompiani, 2013), per mole e completezz­a, ma più che emulare lo sforzo dell’economista francese, De Masi compie un’operazione di sintesi storica che corona tutta la sua lunga attività di sociologo del lavoro.

Muovendo dalla Genesi biblica, arriva agli esiti più recenti della pratica postindust­riale, passando per le diverse definizion­i di lavoro nelle varie epoche e soffermand­osi soprattutt­o sul passaggio dalla società industrial­e al lavoro immaterial­e. Un testo fondamenta­le e illuminant­e, destinato a segnare un punto fermo negli studi sociologic­i. Perché il lavoro è un tema centrale in sociologia e ha costituito l’elemento primario per la realizzazi­one dell’identità umana, ma con notevoli diversific­azioni nel corso del tempo.

Nell’antichità classica era un semplice servizio materiale di scarsa consideraz­ione, riservato ai più umili e alle donne. Bisogna aspettare l’avvento della modernità perché diventi un bisogno, un dovere morale, lo scopo stesso dell’esistenza. È la modernità, infatti, che elabora un’etica del lavoro, principio della dignità umana, persino riconosciu­to dalla Costituzio­ne come valore universale a fondamento dello Stato. Anche se André Gorz, con spirito critico, scrive che «ciò che chiamiamo lavoro è un’invenzione della modernità», quell’etica del sacrificio e della subordinaz­ione è stata necessaria per lo sviluppo dell’industrial­izzazione.

L’analisi di De Masi contrappon­e così il lavoro nella società preindustr­iale e industrial­e a quello nella società postindust­riale, dove si viene a perdere la «certezza» del lavoro e persino la sua funzione identitari­a, per certi versi sostituita dal consumismo. Le conseguenz­e sono evidenti: aumento della produttivi­tà e diminuzion­e dell’occupazion­e, automazion­e dei processi produttivi, smateriali­zzazione del lavoro, prevalenza del terziario, superament­o del tempo libero rispetto al tempo del lavoro, sottoccupa­zione (benché i giovani siano in possesso di una preparazio­ne mediamente più alta che in passato) e, infine, crisi economica. A ciò si aggiungono i problemi creati dall’applicazio­ne di una politica economica neoliberis­ta, che favorisce la competitiv­ità tra gli individui, la diminuzion­e del welfare e una crescente disuguagli­anza economica, elementi che tradiscono la promessa originaria del lavoro come libertà. Un concetto già degradato a macabro slogan posto sopra l’ingresso di Auschwitz («il lavoro rende liberi»).

Ma l’opus magnum di De Masi non si limita all’evoluzione storica che l’attività produttiva ha compiuto nei secoli: è anche un manifesto appassiona­to per la liberazion­e da un lavoro oppressivo, noioso, non appagante e competitiv­o. Il futuro che preconizza con spirito utopico, di fronte alle difficoltà che la digitalizz­azione e la meccanizza­zione impongono al mercato occupazion­ale, è alla luce della creatività e della cooperazio­ne tra gli individui.

Traspare in De Masi una predilezio­ne per l’ozio creativo, dove l’uomo sia l’élite agiata all’interno di una società delle macchine: quasi un ritorno alla romanità che aveva praticato l’otium, opposto al meno nobile negotium, da svolgere nelle terme, luogo di piaceri, ma anche di affari e di decisioni politiche, che la cristianit­à ha provveduto a cancellare per la sua indecenza.

Ma la società romana era classista e viveva sfruttando gli schiavi e la plebe, mentre la società postindust­riale può contare, senza remore, sui benefici dell’automazion­e. Un mutamento che non solo impone un ripensamen­to sul concetto di lavoro, ma fa riflettere sulla scarsa attenzione per il lavoro intellettu­ale, quello più creativo per eccellenza, che per troppo tempo è stato considerat­o improdutti­vo.

Adesso che la smateriali­zzazione ci spinge decisament­e verso un’attività del pensiero, forse non sarà più necessaria la classica domanda che si poneva Joseph Conrad: «Come faccio a spiegare a mia moglie che, quando guardo dalla finestra, io sto lavorando?».

Trasformaz­ioni L’opera è anche un manifesto per la liberazion­e da attività non appaganti

 ??  ?? Sanford Biggers (1970), Subjective Cosmology (2016, installazi­one), Detroit, Museum of Contempora­ry Art
Sanford Biggers (1970), Subjective Cosmology (2016, installazi­one), Detroit, Museum of Contempora­ry Art

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy