Corriere della Sera

Dentro il cuore di Berlino

L’intervento che lo scrittore francese farà stasera a Roma, ospite del Festival Letteratur­e alla Basilica di Massenzio Olivier Guez ci guida per le strade della città, dove storia e ferite si intreccian­o

- Olivier Guez Margherita Botto)

Ho vissuto a lungo a Berlino e ci torno regolarmen­te. Essendo nato a Strasburgo sono un uomo di frontiera, uno scrittore di doppia cultura — almeno. Da bambino, solo un grande fiume (e una certa apprension­e) mi separava dalla Germania e quando andavo a nuotare a Kehl non c’era già più una frontiera, solo bandiere che schioccava­no al vento, chiatte maestose e il ponte sul Reno, luogo di passaggio e di transizion­e, da una lingua all’altra, il francese e il tedesco. I fiumi, le lingue sono piaceri e sfizi da europei. Ed è da europeo che mi rivolgo a voi, cari, carissimi amici italiani, voi che siete stati pionieri dell’avventura europea e che ormai le voltate le spalle. I tempi sono difficili ma non abbandonat­eci, noi abbiamo bisogno di voi, voi avete bisogno di noi.

Vi invito a una passeggiat­a berlinese. Intorno alla Porta di Brandeburg­o e ai suoi

Le contraddiz­ioni

Sintesi dei contrasti tedeschi, Berlino è duttile, capace di deformarsi senza rompersi, di resistere agli urti più terribili

luoghi della memoria tedeschi ed europei. Nel cuore di Berlino, dove da oltre due secoli si intreccian­o gioie e dolori della storia tedesca. La Porta di Brandeburg­o, quel tempio neoclassic­o di marmoreo candore, sormontato dalla sua quadriga e dalla sua dea alata, fu per tanto tempo il simbolo dell’alleanza fra la monarchia prussiana e l’identità nazionale tedesca. Dopo la vittoria a Iena Napoleone si fece consegnare le chiavi di Berlino davanti alla Porta di Brandeburg­o, dalla quale tolse la quadriga, che fu trasferita a Parigi. Con la caduta dell’imperatore i prussiani recuperaro­no il loro carro e il loro orgoglio, e alla Porta di Brandeburg­o vennero celebrate le vittorie sulla Danimarca, sull’austria, e poi sulla Francia: era nata la Germania. Rulli di tamburi, marce militari, elmi d’acciaio, croci di ferro, a lungo la soldatagli­a prussiana sfilò sotto la porta. I nazisti vi organizzar­ono regolarmen­te cortei con le fiaccole. Alla fine della guerra era ancora in piedi, miracolosa­mente, in mezzo a una distesa di macerie: Berlino, di fatto l’intera Germania. Il tempio dell’esaltazion­e collettiva tedesca divenne una frontiera, fra il settore britannico e quello sovietico, e poi il simbolo della divisione del mondo, dell’epoca della Guerra fredda. Il Muro di Berlino bloccava la Porta di Brandeburg­o, e fu alla Porta di Brandeburg­o che si raccolsero spontaneam­ente i berlinesi dell’est e dell’ovest la sera del 9 novembre 1989, quando crollò la Ddr che sequestrav­a i suoi cittadini. Quella notte la gente stappò champagne, si baciò, ballò, una bizzarra e anarchica farandola per la libertà ritrovata.

Dirigiamoc­i ora verso sud e verso la Sprea, incontro al Reichstag-bundestag e alla sua cupola traslucida progettata da sir Norman Foster. La sua costruzion­e fu finanziata dalle riparazion­i di guerra che la Francia versò alla Prussia dopo la disfatta del 1871. Il Reichstag fu un vero e proprio Parlamento solo per 14 anni, la breve vita della Repubblica di Weimar, prima dell’incendio del 1933 che suonò la campana a morto della democrazia tedesca. Piccole stele sono state scolpite alla memoria dei 96 deputati assassinat­i o deportati dai nazisti. Anche lì, nero, rosso e oro: i colori della Germania repubblica­na, quelli della fallita rivoluzion­e liberale del 1848, ondegarriv­iamo giano davanti al Parlamento ripristina­to.

Torniamo indietro. Attraversi­amo alcuni ettari del Tiergarten e ci troviamo di fronte all’imponente monumento ai caduti sovietici della Seconda guerra mondiale. I «liberatori» sovietici si affrettaro­no a erigere il loro memoriale già nell’estate 1945. Sulle facciate del modesto edificio adiacente, fotografie della fine degli anni Quaranta del secolo scorso in cui l’immenso soldato dell’armata rossa si erge sprezzante sopra cumuli di macerie e rovine calcinate, Berlino anno zero, eredità della follia hitleriana. Per ironia della storia il gigante sovietico si trovava a Berlino Ovest, dall’altra parte dell’anaconda di calcestruz­zo e di torrette che stringeva la città frammentat­a, come per soffocarla. A lungo mi sono chiesto che cosa pensassero i berlinesi dell’ovest passando davanti alla statua del combattent­e, ambasciato­re dell’altro demone totalitari­o, l’urss di Stalin.

Ma Berlino è duttile, capace di deformarsi senza rompersi, di resistere alle trazioni e agli urti, anche i più terribili.

Riprendiam­o il cammino verso nord. Incrociamo il monumento in memoria degli omosessual­i perseguita­ti dai nazisti e davanti a un fortilizio, l’ambasciata degli Stati Uniti. Una via separa l’ambasciata da un cimitero di calcestruz­zo, una foresta di tombe, un vasto campo di stele. Il Memoriale della Shoah dispiega il suo macabro labirinto di sepolture anonime, allegorie del più grande crimine della storia, perpetrato dall’industria tedesca della morte. L’olocausto è sfregio indelebile della storia tedesca. Nel cuore del cuore di Berlino non si può sfuggire al memoriale della Shoah. Mantiene vivi la memoria del massacro, il lutto irreversib­ile, l’apocalisse immaginata da Hieronymus Bosch e da Dante, i cerchi infernali che abitano la nostra storia europea. Bisogna addentrars­i nei corridoi di calcestruz­zo grigio. Man mano che si avanza, il suolo si abbassa e, arrivato al centro, il visitatore ha la sensazione di essere sommerso da un soffocante oceano di pietre. A destra, a sinistra, in tutte le direzioni vede solo tombe, in lunghe prospettiv­e, sempre più alte, come se gli fosse impossibil­e cogliere il sito nella sua totalità e la dimensione insensata dello sterminio degli ebrei d’europa. Ci vorrebbero 6 anni, 7 mesi e 27 giorni per recitare i nomi e una breve biografia delle vittime, informa il museo della Shoah che ha sede sotto il Memoriale. Bisogna venirci in una notte fresca e piovosa, quando Berlino dorme o si diverte. L’ombra dei sepolcri è agghiaccia­nte, il silenzio terribile, e l’acqua scorre sulla pietra liscia e fredda, come se da quelle masse senza volto scendesser­o lacrime.

Aria. Respiriamo a pieni polmoni, ci godiamo i neon e il frastuono della città, torniamo alla vita. Da Hannah-arendt Strasse, che costeggia il Memoriale della Shoah, a Potsdamer Platz non c’è che un passo. Andiamoci. Potsdamer Platz è risorta dalla terra dopo la caduta del Muro, come una fenice di calcestruz­zo e acciaio, a immagine di questa città polimorfa che cambia pelle senza sosta. Incarna la Repubblica di Berlino all’inizio del nostro secolo, la sua modernità, anche i suoi difetti, una città poco elegante e poco calorosa ma straordina­riamente viva. Alla vigilia della Prima guerra mondiale le prostitute, gli uomini in bombetta della piccola borghesia guglielmin­a al tramonto e le quinte multicolor­i di Potsdamer Platz ispirarono una serie di tele al pittore espression­ista Ernst Ludwig Kirchner: di questa città immensa (grande sette volte Londra) che si estende languidame­nte da est a ovest dopo aver inglobato laghi, canneti e foreste, Potsdamer Platz fu il centro nevralgico fino alla fine della Seconda guerra mondiale. La divisione di Berlino e poi la costruzion­e del Muro che attraversa­va la piazza la trasformar­ono in una gigantesca no man’s land fino al miracolo del 1989. La piazza, come tutto il quartiere, offre una sintesi delle contraddiz­ioni e delle ferite della Germania, la Germania, patria di Goethe e di Mengele. Berlino è una città che coniuga il suo presente al passato (e viceversa) per abbracciar­e meglio il futuro.

(traduzione di

Il Memoriale della Shoah

Man mano che si avanza, il suolo si abbassa. Si ha la sensazione di essere sommersi da un soffocante oceano di pietre

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Un particolar­e della Porta di Brandeburg­o, a Berlino. In cima si vede la quadriga che Napoleone portò a Parigi nel 1807: tornò al suo posto nel 1814
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Lorenzo Cremonesi (1957) ha scritto tra l’altro Bagdad Café (Feltrinell­i)

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