Un’opera contemporanea ispirata a merci e plusvalore
Marco Lucchesi, nato a Milano nel 1955, e da sempre attivo a Roma al Teatro Due, è uno di quei più infrequenti e più preziosi artisti che non si ripetono ma che al contrario si evolvono. Lo vediamo oggi al lavoro non già nel suo piccolo spazio. È nel più grande che vi sia a Roma, all’argentina, impegnato nell’allestimento di un’opera il cui solo il titolo incute timore: Il Capitale di Karl Marx. Quasi un Vangelo apocrifo in ventiquattro scene. Ne so qualcosa dall’inverno. Lucchesi mi invitò a un incontro con i suoi infuturi compagni di ventura, tutti giovani provenienti dalla scuola di perfezionamento del Teatro di Roma, dal Conservatorio di Santa Cecilia e dal liceo artistico di via Ripetta. Mi spaventai, ma accettai.
Per affrontare Marx decisi finalmente di leggere la monografia che gli aveva dedicato (era la sua opera prima) un non marxista, Isaiah Berlin: un libro di suprema chiarezza ed equilibrio. Non escludo che l’incontro sia stato più proficuo per me che per i giovani che sedevano intorno a quel lungo tavolo. Li rivedo mesi dopo (alcuni di loro) pensando che in teatro il testo ha un’importanza relativa: si potrebbe mettere in scena l’elenco del telefono. Perché non Il Capitale?
In platea, a destra e a sinistra, vi sono due pianoforti: a sinistra suona Domenico Poccia e a destra Simone Moggi. Due prologhi (per due attrici) precedono l’apertura del sipario: il primo è in dialetto napoletano (l’ho detestato, nonostante la bravura dell’interprete: perché sempre questo dialetto?), il secondo, di Martina Massara, è di un’ammirevole potenza, in definitiva quella dell’intero spettacolo. Poi, ecco la grandiosa scena. Sul fondo si succedono in tutte le lingue, compreso l’arabo e il cinese, frasi tratte dal libro di Marx: scorrono dal basso in alto. Sulla gradinata sono seduti i venticinque attori: quattordici (soprani, mezzo soprani, Corale
Una scena di
«Il Capitale di Karl Marx»: l’opera è interpretata da 25 artisti tra cantanti, attori, attrici e musicisti tenori e baritoni) hanno divise in azzurro polvere che ricordano quelle cinesi dei tempi di Mao. Più tardi, i quattordici daranno vita ad assoli di straordinaria intensità e al coro finale.
Ma salendo e scendendo le scale, a terra o in piedi, nascosti sotto quei due tavoli o stanati dalle loro partner, gli undici attori veri e propri si aprono in recitativi tratti da brani del Capitale e da Aristotele o da un commentatore contemporaneo, Alain Badiou. Ed ecco il valore di feticcio della merce, ecco il valore d’uso e il valore di scambio, ecco il plusvalore. Ecco, infine, le dualità (lavoro delle mani e della mente), i racconti, le maschere, i libroni, la valanga di scarpe che precipitano dall’alto, la campanella, l’esempio di Robinson Crusoe, la terza scena dell’atto quarto del Timone di Atene. Ma anche, estreme conseguenze e risultanze, l’uscita dal mondo gerarchizzato e l’approdo alla reale disuguaglianza democratica, quella contemporanea maggiore che quella di ieri. È la luce (la verità) non tanto di uno spettacolo di prosa quanto di una grande opera di musica contemporanea: quello che meno ti aspettavi. Il Capitale di Karl Marx di Marco Lucchesi 7,5 ●●●●●●●●●●