Perché il lavoro intellettuale va riconosciuto
L’era digitale si sta sempre più delineando come l’era dei paradossi. A cominciare da quello che potrebbe minare uno dei fondamenti principali delle comunità moderne: retribuire il lavoro di chi fornisce prodotti o servizi.
Èquello che si sta rischiando in queste settimane con un dibattito alimentato anche dalla persona che più di altri dovrebbe difendere chi produce: il ministro del Lavoro.
L’europa sta procedendo alla riforma del copyright per permettere a chi fa un lavoro intellettuale che venisse veicolato anche via Internet di essere retribuito. La commissione giuridica dell’europarlamento ha dato il via libera alla nuova normativa la settimana scorsa per permettere che si arrivi al mercato unico digitale. Quel mercato unico che, come si è visto nel caso delle telecomunicazioni, ha portato enormi benefici in termini di prezzi ai consumatori e diffusione delle tecnologie.
La normativa è entrata nel mirino delle grandi organizzazioni dell’hi-tech. Dal loro punto di vista è comprensibile. In Italia quasi il 70% del tempo trascorso su Internet è speso su Whatsapp, Facebook, Google, Instagram e Youtube. Vale a dire su tutte applicazioni possedute dal duopolio Facebook-google. Grazie ai dati che noi forniamo loro più o meno coscientemente, possono sì fornirci servizi gratuiti, ma guadagnando miliardi come si vede dai loro bilanci, vendendo alla pubblicità e alle aziende l’enorme mercato che controllano.
Come interviene la direttiva Ue? Con due articoli. Sono il numero 11 e il 13. Il secondo è quello più generale. Si impone a piattaforme comeYou tube oInst agra me ai maghi della tecnologia che le guidano, di installare filtri che permettano di individuare contenuti protetti da copyright. Si fissa cioè il principio che un lavoro intellettuale non perché semplice prodotto della mente, della creatività, che si tratti di uno spettacolo teatrale di una canzone o di un racconto, possa essere tranquillamente scambiato online senza che al lavoratore venga corrisposto il minimo compenso.
A far comprendere la posta in gioco sono i casi tedesco e spagnolo. Nei due Paesi dove hanno provato a introdurre delle forme di pagamento, Google ha semplicemente lasciato il mercato. Minacciare la disapplicazione della direttiva nel caso venisse approvata dall’europarlamento la settimana prossima come ha fatto il ministro Luigi Di Maio, costringerebbe l’italia ad azioni solitarie e probabilmente destinate all’insuccesso. Sempre che si sia d’accordo sul principio che anche il lavoro intellettuale distribuito online debba essere compensato al pari dei riders o di altre professioni.
L’altro articolo, il numero 11, introduce il principio che le piattaforme online debbano pagare nel caso utilizzino link di notizie prodotti da altri. A testimonianza di quanto sia in atto una battaglia culturale, la norma è stata battezzata furbescamente come link tax, cosa che non è. Si tratta del pagamento di informazioni, non di tassa.
Si prenda il caso dei cosiddetti «snippet». Molti aggregatori cosa fanno? Mandano in giro i loro spyder, ragni elettronici, che prelevano dai siti di informazione titoli, sommari, foto e qualche rigo di testo, per trasferirli su proprie piattaforme. Anche qui in molti casi senza accordi o pagamenti con chi ha prodotto quelle informazioni.
Il ministro Di Maio parlando della normativa europea ha detto che quelle leggi «potrebbero mettere il bavaglio alla rete». Ma è evidente che non si sta mettendo in discussione il singolo utente che scambia idee o parti di contenuti (cosa ben diversa da veicolare interi film o romanzi o articoli), ma lo sfruttamento sistematico da parte di chi gode di posizioni dominanti sul mercato e si fa forte di questa distribuzione parallela per indebolire i produttori di contenuti.
Il ministro ha usato fortunatamente il condizionale. Se pensava a difetti di scrittura o tecnicalità che possono migliorare la direttiva a livello nazionale come peraltro previsto, è un conto; altro è mettere in discussione principi. Come retribuire il lavoro, anche intellettuale.