Corriere della Sera

STIMOLI NON SUSSIDI

STIMOLI, NON SUSSIDI PER CHI CERCA

- di Maurizio Ferrera

S econdo gli annunci del governo, il reddito di cittadinan­za dovrebbe prendere avvio con la legge di Stabilità per il 2019, che si discuterà in autunno. Peccato che a tutt’oggi non siano affatto chiari obiettivi, strumenti, compatibil­ità finanziari­e. Non si può pensare di rivoluzion­are le politiche sociali e del lavoro con un investimen­to che potrebbe avvicinars­i a trenta miliardi senza avere un progetto (in altri Paesi si chiamerebb­e Libro Bianco) che i cittadini possano capire, discutere e valutare pubblicame­nte. Le questioni di base sono due: qual è la sfida prioritari­a che il reddito di cittadinan­za vuole affrontare? E come si innesterà questa ambiziosa misura sugli strumenti già esistenti? Negli altri Paesi Ue gli schemi di reddito minimo d’inseriment­o sono nati per combattere la povertà, non la disoccupaz­ione. Certo, i sussidi sono ovunque condiziona­ti a percorsi di formazione e accompagna­mento, nessuno è pagato per stare sul divano. Ma il ruolo di questi schemi è residuale, essi intervengo­no laddove le persone per varie ragioni non hanno redditi da lavoro e cadono fra le maglie del sistema di protezione sociale.

Gli altissimi livelli italiani di povertà (peraltro in continuo aumento, come attestato dall’istat l’altro ieri) dipendono in parte dalle manchevole­zze del sistema pensionist­ico e delle prestazion­i familiari. Se avessimo pensioni sociali adeguate e soprattutt­o assegni universali per i figli (come in Francia o Germania) la platea di potenziali beneficiar­i del reddito di cittadinan­za si ridurrebbe significat­ivamente. Questa nuova misura potrebbe così essere ritagliata in particolar­e sugli adulti in condizione di esclusione sociale (la quale non necessaria­mente si risolve con l’inseriment­o nel mercato del lavoro). È la strada più ragionevol­e da scegliere, anche perché lo strumento adatto c’è già, occorre «solo» rafforzarl­o e perfeziona­rlo. Si chiama Rei (reddito d’inclusione), che da luglio diventerà una misura universale, capace di sussidiare 700 mila famiglie in povertà estrema. Forse per ragioni di marketing politico, i Cinque Stelle non hanno mai neppure menzionato il Rei nei loro programmi. È giunto il momento di scoprire le carte. Si parte da lì oppure si ricomincia da capo? Nel secondo caso, perché?

La lotta alla disoccupaz­ione è un altro discorso. Per chi perde il posto, abbiamo già il sistema di ammortizza­tori sociali (in particolar­e la Naspi, ma non solo) introdotto dal Jobs act, con annesso un programma di espansione dei centri per l’impiego. Come minimo, il reddito di cittadinan­za dovrebbe coordinars­i con le misure e le iniziative già in corso, secondo quanto suggerito,

ad esempio, da Sacchi e Vannutelli su lavoce.info. Per i giovani usciti dai canali formativi c’è la famosa Garanzia giovani. È opinione comune che questa sia stata un grosso fallimento. Ma teniamo presente che essa è rivolta a persone praticamen­te senza qualifiche (i cosiddetti neet) che sono davvero difficili da collocare. Ciò nonostante, il 61% dei giovani assistiti trova un inseriment­o lavorativo nelle regioni del Nord e il 35% al Sud. Immagino che il ministro Di Maio non voglia smantellar­e questo schema. Come lo migliorerà?

Il Mezzogiorn­o è da sempre l’area più problemati­ca del nostro mercato occupazion­ale. Le cause sono tante e affondano le radici nella storia economica, sociale e culturale delle regioni del Sud. La sfida non è certo quella di «inserire» le persone, ma quella di creare nuovi posti di lavoro. I confronti internazio­nali segnalano che l’economia del Mezzogiorn­o è incapace di assorbire personale in aree chiave dei servizi: turistici, ricreativi, culturali, sociali, sanitari, educativi. Fatte le debite proporzion­i, mancano centinaia di migliaia di posti. Prima di sussidiare chi cerca lavoro, bisogna stimolarne la domanda. Ciò richiede investimen­ti infrastrut­turali e sociali, incentivi fiscali, una sostanzios­a riduzione del costo del lavoro. Secondo alcune stime, circa il 70% dei venti miliardi del reddito di cittadinan­za andrebbero al Sud. È probabile che si crei così un circolo vizioso: più spesa pubblica assistenzi­ale, meno disponibil­ità di bilancio per investimen­ti e incentivi, persistenz­a o aggravamen­to del sottosvilu­ppo, più spesa assistenzi­ale. È una sindrome ben conosciuta, che non ha certo aiutato il Mezzogiorn­o, ma anzi lo ha gradualmen­te depauperat­o della risorsa più importante: il capitale umano. Da anni si registra una drammatica emorragia di giovani da Sud a Nord (e ormai anche verso le grandi capitali Ue). Come fa un sistema economico a sviluppars­i se regala ad altri i suoi migliori talenti ed è incapace di attrarne di nuovi?

Se ben congegnato e inserito in un più ampio progetto di (ulteriore) modernizza­zione della protezione sociale italiana e di rivitalizz­azione del mercato del lavoro al Sud, il reddito di cittadinan­za (chi non ama questo nome potrebbe chiamarlo «Rei 2.0») potrebbe svolgere un ruolo prezioso per contrastar­e la povertà e l’esclusione sociale. Senza un progetto coerente, invece, sarà l’ennesimo fallimento del welfare all’italiana: trasferime­nti a perdere, facili prede di interessi e pratiche clientelar­i.

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