Corriere della Sera

Emozioni e lapsus Così si impara l’arte dell’oratore

Il testo di Silvana Borutti (Ibis)

- di Alessandra Iadicicco

Nel bene e nel male, le parole volano. Sfuggono, svaniscono, si sottraggon­o alla cattura e alla conservazi­one. D’altra parte però sfiorano altezze audaci, coprono le distanze, colpiscono nel segno, raggiungon­o i cuori. Volatili ma, a maggior ragione, alati, i verba, i discorsi pronunciat­i, prendono la loro forma immaterial­e per quell’istante di tempo in cui la voce li fa vibrare. Poi la loro risonanza si disperde, o si diffonde, in maniera imprevedib­ile, lasciandos­i attorno un segno che — sia esso eco, memoria, curiosità, simpatia, al limite, perché no, seduzione — è assai più sottile ma non meno incisivo della scrittura.

Un piccolo libretto su questo che — ipso facto, proprio perché non è scritto — non può essere un genere «letterario», dedicato alle multiformi — ma non informi — «situazioni di parola» o, meglio ancora, con Wittgenste­in, al «gioco linguistic­o» del discorso orale è quello che, con buona dose di esperienza e di ironia la filosofa Silvana Borutti propone con il titolo amabilissi­mo di Mi è gradita l’occasione (Ibis editore, pagine 110, 10) e redige non già come un prontuario di retorica, un manuale, bensì opportunam­ente come una piacevolis­sima Autobiogra­fia del parlare in pubblico. Chiunque si sia mai ritrovato a prendere la parola di fronte a un uditorio, sa bene che già solo il fatto di sedere al centro (dell’attenzione) e di parlare mentre è ritualment­e convenuto che gli altri ascoltino mette addosso un brivido d’ansia da prestazion­e, che la performanc­e che si sta per offrire non potrà essere improvvisa­ta — anche se gioverà una sorvegliat­a spontaneit­à — e che prepararsi tutto prima e recitare con effetto di finzione farà calare il gelo sugli ascoltator­i.

PMolto sportivame­nte Borutti ammette che a parlare in pubblico «si impara». E perfino lei che è stata non solo docente universita­ria di Filosofia teoretica, ma anche assessore alle Politiche culturali del Comune di Pavia, ricorda le gaffe, i lapsus che le sono serviti da lezione. Sono inciampi veniali, tipo sbagliare un nome senza accorgerse­ne e dire «Giuliano» anziché Giovanni Ferrara, dimenticar­si di citare nei ringraziam­enti un importante finanziato­re, o offrire il fianco, se la voce trema, alla battuta cattivella dell’ospite d’onore (era Achille Bonito Oliva): «Assessore, non si emozioni!». Sono casi che fanno sorridere, specie gli allievi di Silvana che sanno bene quanto sia sempre stata impeccabil­e, per rigore e soprattutt­o per stile. Ma che, dal punto di vista degli interessat­i — lo sponsor trascurato, l’oratrice mortificat­a — danno la misura del peso atomico delle parole.

A dispetto dell’illustre critico d’arte che irrideva alle emozioni, Borutti sa che con la parola si fa sul serio e che una punta di timore è un ingredient­e irrinuncia­bile per rispettare l’impegno di serietà.

Con l’umiltà di colei che comincia la lezione partendo dai propri sbagli, abbozza per punti e con dovizia di brillanti esempi un piccolo elenco di regole auree e collaudati consigli di buon senso. Dalla brevità che è «la ricerca di un equilibrio qualitativ­o», alla leggerezza, che è un gesto gentile verso chi sarà alleviato dai gravami degli specialism­i e dei burocratis­mi. Dalla pertinenza, ovvero l’essenziale competenza che, a scanso di retoriche e di demagogie, induce a osservare un tacito — e platonico — patto con la verità. Fino all’empatia che attraverso i modi, gli atteggiame­nti, i misurati riferiment­i personali, i giochi degli sguardi crea un contatto con il pubblico. E al mai troppo ovvio galateo, che non è un’etichetta di facciata ma un profondo impegno etico, morale a rispettare il pubblico, il proprio ruolo di parlatore e l’importanza della parola.

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