Emozioni e lapsus Così si impara l’arte dell’oratore
Il testo di Silvana Borutti (Ibis)
Nel bene e nel male, le parole volano. Sfuggono, svaniscono, si sottraggono alla cattura e alla conservazione. D’altra parte però sfiorano altezze audaci, coprono le distanze, colpiscono nel segno, raggiungono i cuori. Volatili ma, a maggior ragione, alati, i verba, i discorsi pronunciati, prendono la loro forma immateriale per quell’istante di tempo in cui la voce li fa vibrare. Poi la loro risonanza si disperde, o si diffonde, in maniera imprevedibile, lasciandosi attorno un segno che — sia esso eco, memoria, curiosità, simpatia, al limite, perché no, seduzione — è assai più sottile ma non meno incisivo della scrittura.
Un piccolo libretto su questo che — ipso facto, proprio perché non è scritto — non può essere un genere «letterario», dedicato alle multiformi — ma non informi — «situazioni di parola» o, meglio ancora, con Wittgenstein, al «gioco linguistico» del discorso orale è quello che, con buona dose di esperienza e di ironia la filosofa Silvana Borutti propone con il titolo amabilissimo di Mi è gradita l’occasione (Ibis editore, pagine 110, 10) e redige non già come un prontuario di retorica, un manuale, bensì opportunamente come una piacevolissima Autobiografia del parlare in pubblico. Chiunque si sia mai ritrovato a prendere la parola di fronte a un uditorio, sa bene che già solo il fatto di sedere al centro (dell’attenzione) e di parlare mentre è ritualmente convenuto che gli altri ascoltino mette addosso un brivido d’ansia da prestazione, che la performance che si sta per offrire non potrà essere improvvisata — anche se gioverà una sorvegliata spontaneità — e che prepararsi tutto prima e recitare con effetto di finzione farà calare il gelo sugli ascoltatori.
PMolto sportivamente Borutti ammette che a parlare in pubblico «si impara». E perfino lei che è stata non solo docente universitaria di Filosofia teoretica, ma anche assessore alle Politiche culturali del Comune di Pavia, ricorda le gaffe, i lapsus che le sono serviti da lezione. Sono inciampi veniali, tipo sbagliare un nome senza accorgersene e dire «Giuliano» anziché Giovanni Ferrara, dimenticarsi di citare nei ringraziamenti un importante finanziatore, o offrire il fianco, se la voce trema, alla battuta cattivella dell’ospite d’onore (era Achille Bonito Oliva): «Assessore, non si emozioni!». Sono casi che fanno sorridere, specie gli allievi di Silvana che sanno bene quanto sia sempre stata impeccabile, per rigore e soprattutto per stile. Ma che, dal punto di vista degli interessati — lo sponsor trascurato, l’oratrice mortificata — danno la misura del peso atomico delle parole.
A dispetto dell’illustre critico d’arte che irrideva alle emozioni, Borutti sa che con la parola si fa sul serio e che una punta di timore è un ingrediente irrinunciabile per rispettare l’impegno di serietà.
Con l’umiltà di colei che comincia la lezione partendo dai propri sbagli, abbozza per punti e con dovizia di brillanti esempi un piccolo elenco di regole auree e collaudati consigli di buon senso. Dalla brevità che è «la ricerca di un equilibrio qualitativo», alla leggerezza, che è un gesto gentile verso chi sarà alleviato dai gravami degli specialismi e dei burocratismi. Dalla pertinenza, ovvero l’essenziale competenza che, a scanso di retoriche e di demagogie, induce a osservare un tacito — e platonico — patto con la verità. Fino all’empatia che attraverso i modi, gli atteggiamenti, i misurati riferimenti personali, i giochi degli sguardi crea un contatto con il pubblico. E al mai troppo ovvio galateo, che non è un’etichetta di facciata ma un profondo impegno etico, morale a rispettare il pubblico, il proprio ruolo di parlatore e l’importanza della parola.