Reticolati e jeep nella «Carmen» della libertà
P er dire quanto Carmen, come tragedia della libertà femminile, valga anche in epoca recente, il regista Hugo De Ana, che con l’opera di Bizet inaugura l’arena di Verona, torna a trasporre la vicenda al tempo della guerra civile spagnola (come nel 1995, al Comunale di Treviso). Ma l’apporto non è decisivo: mentre fascinose proiezioni creano, sulle gradinate, spazi immensi e fantastici, la scena si contrae in un affastellarsi di cataste (barricate?), casse, camion, jeep, cumuli anche chez Lillas Pastia, reticolati da Lager sui monti dei contrabbandieri, a chiudere anziché a dare respiro. Più torva che seducente è anche la Carmen di Anna Goryachova, dal corposo registro grave, ma con rallentando che ne spengono la sensualità. I dialoghi cantati anziché recitati (tranne uno, chissà perché) e i coriandoli kitsch sparati a pioggia nel finale non innalzano la resa.
Meglio lo slancio di Brian Jagde (Don José) e Alexander Vinogradov (Escamillo); e Mariangela Sicilia, fresca e viva Micaela. Non la solita timidina baciapile, ma una giovane donna coraggiosa. Gira in bici, rintuzza la soldataglia. Ed è l’unica a tornire le frasi con sfumature toccanti, specie nel clou di «Je dis que rien ne m’épouvante», cantata con il dolore e la saldezza di un’anti-carmen: vittima di riflesso dello stesso maschilismo omicida, che il mito operistico chiama «destino». Giusto rilevarlo, con il bel gesto di Cecilia Gasdia, nuova guida dell’arena: che alla Prima ha posto 32 rose rosse (tante le vittime di femminicidio in Italia, quest’anno) sulla poltrona 32 della platea.