Corriere della Sera

Quella partita impossibil­e tra Federer-solfrizzi e Dio

- di Franco Cordelli

Che cos’è Roger? Chi è Roger? Prodotto dall’argot di Roma e in scena al festival di Napoli nella sezione dedicata allo sport, Roger è una commedia di Umberto Marino. Erano anni che non vedevo un suo spettacolo, dai tempi di Italia-germania 4 a 3 e Volevamo essere gli U2.

Ai miei occhi, dunque, un ritorno. In quanto al Roger del titolo chi altri potrebbe essere se non Federer, uno dei personaggi pubblici su cui gli scrittori hanno fantastica­to di più in questi anni? Non so nulla di lui, ma credo di intuire che egli ha due tra i requisiti più illustri del nostro tempo, o due requisiti che in ogni tempo è difficile trovare insieme, la bellezza e la grazia.

La bellezza di Federer è anche eleganza, e la sua grazia è anche potenza: una combinazio­ne fatale, che produce la gloria: e non è la gloria uno dei grandi argomenti di scrittura? La gloria può essere detestata, disprezzat­a, messa in croce; ma può essere, al contrario, oggetto di lode, anzi di laude. Se Roger è Dio, come dice il protagonis­ta della commedia di Marino, perché non scrivere un inno in suo onore? Un inno, naturalmen­te, figlio del suo tempo: un inno indiretto, contorto, tormentato; un inno che trasuda invidia e rancore, disappunto e rassegnazi­one; il senso dell’inferiorit­à e l’amara constatazi­one di una sconfitta che sembra scritta dalla nascita.

Non so quanto Marino stia davvero parlando dell’umano sentimento nei confronti del divino e quanto, piuttosto, del più modesto sentimento di un qualunque tennista «numero 2» di fronte all’ovvio «numero 1» del mondo.

Penso che la parola Dio, che compare solo alla fine, sia niente più che una normale e corrente metafora: pure essa sembra scaturire dal profondo, da una percezione dell’irrimediab­ile — che va oltre il fatto di non riuscire a vincere quella partita che si sta per giocare con Roger, né, con lui, alcun’altra partita. Roger, nella Tennis

Emilio Solfrizzi in «Roger»: lo spettacolo diretto da Umberto Marino mette in scena un match di tennis commedia di Marino è davvero, almeno un poco, la divinità.

A leggerla, la commedia, si percepisce la chiarezza di chi frequenti, come spettatore, o come giocatore, o ex giocatore, i campi da tennis: vi è in essa una geometria, vi è la nitidezza di chi sia abituato a calibrare un colpo, o di chi guarda con concentraz­ione assoluta le linee che delimitano lo spazio in cui ti muovi. Tutt’altro, vederla recitata.

Il regista è l’autore; ma l’interprete, Emilio Solfrizzi, di questa geometria, di questa nitidezza, non vuole farsi ragione. Butta tutto all’aria, scende in campo allo sbaraglio, naturalmen­te sa, anche lui, che perderà, ma è pronto, il dio, a sfidarlo. Con quali armi se non quelle dell’umorismo, dell’ironia, dell’addio a ogni calcolo di opportunit­à?

Nell’esibizione di Solfrizzi, il numero 2, che è lì ad attendere il dio che non verrà, che non lo degnerà neppure della discesa in campo e del confronto, nella sua esibizione c’è il cuore gettato oltre l’ostacolo. Oltre alla voce e alla perfida e sottile ingiuria, ci sono anche il corpo e il sudore, c’è addirittur­a lo sperpero, il consumo di sé.

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