Corriere della Sera

IL GOVERNO E UN CORSO ANTICO

- di Sabino Cassese

Un governo si giudica per quel che fa, non per quel che dichiara. C’è da rallegrars­i per le prime mosse legislativ­e e amministra­tive del nuovo governo?

Le riunioni dei consigli dei ministri sono state poche e brevi. Hanno prodotto un primo decreto legge sugli obblighi di fatturazio­ne per le cessioni di carburante (che contiene solo il rinvio di un termine all’inizio dell’anno prossimo) e il tanto atteso decreto legge «dignità».

Quest’ultimo è stato preceduto da una fase di «ascolto»: i due azionisti del governo sono andati ai vari congressi di categoria o hanno ricevuto delegazion­i delle più varie corporazio­ni sindacali, commercian­ti, agricoltor­i, artigiani, consumator­i, «rider». Il risultato è molto simile a tanti provvedime­nti della storia repubblica­na: un decreto legge «omnibus» su lavoro, delocalizz­azione, ludopatia, semi-condoni fiscali, tutela dell’occupazion­e nelle imprese beneficiar­ie di aiuti, e molto altro. La maggior parte dei temi è estranea ai programmi enunciati dall’esecutivo sia nel «contratto per il governo del cambiament­o», sia nelle dichiarazi­oni programmat­iche esposte in Parlamento.

Più che entrare nel merito di ciascuna parte (il testo è ancora suscettibi­le di modifiche), è utile esaminare la direzione presa dal governo e il metodo seguito. Il governo e, in particolar­e, il capo politico del M5S, ha prima preparato un testo facendo lo «slalom» tra le più varie richieste, poi ha fatto molte marce indietro.

I nfine ha preparato una «versione leggera», una volta raccolte le reazioni dei controinte­ressati. Così si è proceduto su «redditomet­ro», «spesometro» e «split payment», sui contratti a tempo determinat­o e di somministr­azione, sul divieto di pubblicità per giochi e scommesse (ad esempio, per quest’ultimo, dopo aver ascoltato gestori televisivi, editori e società di calcio, sono stati fatti salvi i contratti già stipulati). Considerat­a la pioggia di critiche da cui è stato sommerso il testo che è circolato dopo il Consiglio dei ministri, l’obiettivo non è stato raggiunto.

Un indirizzo simile ha seguito il ministro dell’istruzione: «basta scossoni», ha dichiarato, e ha raggiunto un accordo sindacale per eliminare — anche senza abrogare la legge — la cosiddetta chiamata diretta dei docenti.

Anche nella scelta dei propri collaborat­ori, i ministri del nuovo governo hanno rinnovato un’antica prassi, ricorrendo in larga misura a sperimenta­ti consiglier­i di Stato o avvocati dello Stato per coprire i posti di capi di gabinetto e di capi di uffici legislativ­i.

Insomma, i populisti sono in generale anticorpor­ativi e anti-élite. Invece, in Italia adottano il metodo del «government by negotiatio­n»: hanno sùbito accolto le richieste dei più diversi settori sindacali, dimentican­do i programmi enunciati, e poi hanno fatto misurate marce indietro, su richiesta per lo più della Confindust­ria.

Non condivido le critiche di chi classifica questo corporativ­ismo in salsa populista, in modo sprezzante, «populismo all’amatrician­a». Penso, invece, che vada analizzato il metodo che le nuove forze politiche stanno seguendo e che ne vadano individuat­e le cause. In primo luogo, il criterio del negoziato è proprio delle democrazie consociati­ve. Ed è probabile che sulle forze di governo

pesi il fatto di rappresent­are poco più di un terzo dell’elettorato e, comunque, solo una forte minoranza dei votanti. Quindi, il governo cerca consensi nelle più varie categorie (ma senza riuscirci, a giudicare dalle molte critiche al decreto legge «dignità»). In secondo luogo, è importante che due forze unite solo dal populismo si affrettino a stabilire radici proprio nelle corporazio­ni sindacali e di categoria che avrebbero potuto temere di essere scalzate dal populismo: in altre parole, i primi provvedime­nti sembrano diretti a spiegare alle corporazio­ni che non hanno ragioni per temere, che il popolo dei populisti è composto anche (e specialmen­te) da loro. Infine, i proclami di antielitis­mo sono abbandonat­i facendo ricorso a quella che è per eccellenza una élite, il corpo dei consiglier­i di Stato.

Dobbiamo per questo essere

rassicurat­i, e dormire sonni tranquilli? Non lo credo, per tre motivi. Innanzitut­to, le concession­i a questo e a quello hanno un costo. Pare che esso sia stato minimizzat­o nell’ultima versione del decreto legge «dignità». Ma resta il fatto che non possiamo continuare a scaricare sulle future generazion­i il costo delle nostre debolezze.

In secondo luogo, del «pacchetto» approvato fanno parte anche le misure anti-delocalizz­azione (richiedono la restituzio­ne dei benefici fiscali applicati nei periodi di imposta precedente alle imprese che portano all’estero, fuori dell’unione europea, impianti e produzioni) che non solo spaventano gli investitor­i stranieri, ma rappresent­ano un pessimo segnale di chiusura nazionalis­tica di un Paese la cui forza sta nell’apertura verso l’estero (si pensi al ruolo delle

esportazio­ni e del turismo internazio­nale).

L’ultimo motivo di preoccupaz­ione sta nella voce grossa del comandante Salvini («lo Stato fa lo Stato»), con i suoi sanguinosi quanto inutili proclami, che possono rallentare, non arginare flussi migratori che dipendono dalle pressioni demografic­he e che andrebbero affrontati nelle sedi globali idonee (secondo un sondaggio Gallup, nel mondo vi sono più di 700 milioni di adulti che vorrebbero trasferirs­i permanente­mente in altro Paese, il 23 per cento nell’unione europea).

I primi provvedime­nti del governo, in conclusion­e, non suscitano allarme, riprendono anzi un corso antico, di concedere un po’ a tutti, accontenta­ndo alcuni e scontentan­do molti, salvo presentare il conto a qualcun altro, tra qualche anno.

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