Corriere della Sera

I POTERI E LE PAROLE DEL PRESIDENTE TRUMP

Stati Uniti I giudici salvano l’atto che limita l’ingresso degli stranieri ma richiamano la tradizione liberale

- di Giulio Napolitano

L a recente decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti sul divieto di ingresso nel Paese dei cittadini provenient­i da otto nazioni «sospette» o «non collaborat­ive», prevalente­mente islamiche (ma ci sono anche la Corea del Nord e il Venezuela), segna un importante punto a favore del presidente Trump. La Corte infatti ha dichiarato la piena legittimit­à, anche sul piano costituzio­nale, di una delle misure più controvers­e adottate all’indomani dell’insediamen­to. Improvvida­mente etichettat­o come «Muslims Ban», il provvedime­nto presidenzi­ale è subito diventato oggetto di un’aspra battaglia politica e giudiziari­a. Di questa battaglia si è avuta eco anche nella serrata discussion­e in seno alla Corte Suprema, conclusasi con una votazione a stretta maggioranz­a 5-4 a sostegno della sentenza redatta dal Chief Justice Roberts. E la tensione morale che ha profondame­nte diviso la Corte al suo interno si può ben cogliere nell’appassiona­ta opinione dissenzien­te della giudice Sotomayor, la quale ha voluto mettere nero su bianco che «gli Stati Uniti d’america sono stati fondati sulla promessa della libertà religiosa» e che la decisione presa a maggioranz­a dalla Corte fallisce nel salvaguard­are il fondamenta­le principio della neutralità religiosa sancito nella Costituzio­ne.

La sentenza giunge particolar­mente propizia per il presidente Trump nel momento in cui egli è esposto a dure critiche per il trattament­o dei migranti provenient­i dal Messico. Ma sarebbe un errore leggere la decisione della Corte come un pieno lasciapass­are alla politica del presidente in materia di sicurezza e di immigrazio­ne. E sarebbe tanto più sbagliato intenderla come un’implicita ode universale al neo-sovranismo e alle scelte di chiusura delle frontiere che stanno emergendo a diverse latitudini.

Nella sentenza, la Corte ribadisce a chiare lettere la propria consolidat­a giurisprud­enza secondo cui la decisione di ammettere ed escludere gli stranieri dal territorio nazionale costituisc­e esercizio di una «prerogativ­a sovrana fondamenta­le» e ricorda come non esista un diritto costituzio­nalmente protetto degli stranieri all’ingresso sul suolo americano. Sono affermazio­ni che non devono sorprender­e se si considera la tradiziona­le refrattari­età degli Stati Uniti e delle sue corti ad assumere e a riconoscer­e la cogenza di vincoli internazio­nali e l’assenza di ogni riferiment­o al diritto di asilo nel Bill of Rights. Ma tali affermazio­ni non potrebbero certo formularsi negli stessi termini nei Paesi europei, le cui più recenti Costituzio­ni, memori degli orrori della Seconda guerra

 Interesse nazionale La legge americana sull’immigrazio­ne conferisce un’ampia delega al leader

mondiale, salvaguard­ano espressame­nte quel diritto e operano nell’ambito dei vincoli comuni volontaria­mente assunti nell’ambito delle politiche migratorie dell’unione Europea.

Nel merito, la Corte Suprema afferma chiarament­e che la legge americana sull’immigrazio­ne e la cittadinan­za conferisce un’ampia delega al presidente nel sospendere con un apposito «Proclama» (Proclamati­on) l’ingresso di stranieri o classi di stranieri che possa risultare dannoso per l’interesse nazionale, e in particolar­e per la sua sicurezza interna. E anzi sottolinea che il testo della norma in questione «trasuda deferenza per il presidente in ogni clausola». Anche in questo caso, però, l’esatta portata di questa impegnativ­a affermazio­ne della Corte non va fraintesa. Essa, infatti, va collocata nell’ambito di una più generale tendenza dell’ordinament­o statuniten­se al rafforzame­nto di quella che è stata chiamata l’«amministra­zione Presidenzi­ale» e di cui hanno beneficiat­o, contribuen­do a erigerla, anche i presidenti democratic­i. Ciò dovrebbe indurre a rifuggire da polemiche partigiane che finiscono per apparire pretestuos­e e persino controprod­ucenti, come osserva tra le righe la sentenza, citando con dovizia di particolar­i vari precedenti di ordini presidenzi­ali sia repubblica­ni, sia democratic­i. Un ammoniment­o che forse non andrebbe dimenticat­o anche nei momenti di più forte contrappos­izione politica qui in Europa.

Va inoltre sottolinea­to che la Corte dà il via libera al «Proclama» presidenzi­ale soltanto nella terza (opportunam­ente emendata e ben più calibrata) versione, dopo aver sottolinea­to l’ampiezza dell’istruttori­a finalmente svolta dall’amministra­zione, l’approfondi­ta interlocuz­ione con i governi stranieri in causa e i progressi in taluni casi registrati, il coinvolgim­ento di tutte le agenzie federali competenti in materia e la previa consultazi­one con diversi membri dell’esecutivo. A conferma che decisioni così rilevanti e complesse non possono certo prendersi in modo improvvisa­to o con iniziative estemporan­ee e individual­i anche da parte della più alta autorità politica. Il punto più sensibile rimane naturalmen­te quello del possibile carattere discrimina­torio del bando che esclude gli stranieri sulla base della loro nazionalit­à, ma in realtà anche, almeno secondo i ricorrenti e alcuni giudici della stessa Corte, sulla base del loro credo religioso. Il nodo è qui costituito dalle parole con cui il presidente Trump, durante la campagna elettorale e una volta eletto, ha annunciato e accompagna­to la sua decisione, con affermazio­ni ambigue e talvolta apertament­e anti-islamiche. La Corte supera il problema concentran­do l’attenzione sul tenore oggettivo del provvedime­nto, che giudica del tutto neutrale sul piano religioso. Ma la Corte non si sottrae a un seppur implicito richiamo al presidente Trump, sottolinea­ndo la rilevanza dello «straordina­rio potere di parola» dei presidenti americani e ricordando la lunga e ininterrot­ta tradizione di grandi discorsi con cui, da George Washington in poi, essi hanno sempre vigorosame­nte ribadito l’impegno a onorare i principi di libertà religiosa, rispetto e tolleranza. Anche questo è un ammoniment­o che potrebbe essere esteso ai governanti al potere da questa parte dell’atlantico, che rischiano di tradire il senso della propria funzione quando il suo quotidiano esercizio finisce per essere soverchiat­o da una comunicazi­one pubblica assordante, orientata a mere esigenze di propaganda politica.

Del dibattito nella Corte Suprema, le parole forse più efficaci risultano allora quelle contenute nell’opinione concorrent­e con cui il giudice Kennedy si è di fatto accomiatat­o dalla Corte, al termine di uno straordina­rio mandato svolto lungo il difficile crinale che ha spesso separato al suo interno conservato­ri e progressis­ti: per quanto possa essere ampia la sfera di discrezion­alità politica riconosciu­ta ai membri del governo, «questa non significa che essi siano liberi di ignorare la Costituzio­ne e i diritti e le libertà che essa protegge». Un «mondo in ansia» deve sapere che «il nostro governo rimane sempre devoto a quelle libertà che la Costituzio­ne cerca di conservare e di proteggere, affinché esse si estendano anche all’esterno e durino».

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 Affermazio­ni ambigue

Il nodo è costituito dalle dichiarazi­oni che hanno accompagna­to il varo del provvedime­nto

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