Elogio dell’«umarell», ultimo testimone dei valori di una volta
Elogio dell’umarell. Si deve all’antropologo Danilo Masotti la consacrazione fenomenologica del pensionato che, mani dietro alla schiena, ama guardare i cantieri, discutere con gli operai, dispensare suggerimenti non richiesti: l’umarell (ometto), appunto. Dentro ognuno di noi alberga lo spirito dell’umarell (i lavori della metropolitana che stanno sconvolgendo molte strade di Milano sono accompagnati dagli sguardi vigili di centinaia di umarells), tanto che ormai il pensionato che osserva per criticare il lavoro degli altri è parte dello scenario urbano e mediatico. I talk show, per esempio, sono pieni di umarells. La ragione è presto spiegata. Salvo rari casi (per esempio, Marco Travaglio è «gettonato» a presenza con il logo del suo giornale dietro la schiena), i talk non pagano le presenze in studio. Forse neanche il rimborso taxi. Perciò sono molto frequentati dai politici (andare in tv è il loro mestiere), da ospiti che hanno qualcosa da promuovere, da esibizionisti e da umarells.
Fateci caso: l’umarell (non è termine spregiativo, è solo una condizione dello spirito) esiste innanzi tutto perché ha molto tempo a disposizione, al limite del fancazzismo. Nel suo perenne smarrimento, è trasversale (in una giornata può farsi anche tre talk: mattino, pomeriggio e sera), è fatalmente logorroico ma mai divisivo (si tratta pur sempre dello spettacolo della parola), è conservatore (anche se dichiaratamente di sinistra). L’umarell, infatti, è l’ultimo testimone dei valori di una volta, estremo baluardo contro la mancanza di decoro della discussione civile. A volte, ripiegato su sé stesso, confonde l’eleganza con la piaggeria, ma non importa. Che funzione svolge dentro un talk? Di riempitivo, verrebbe da dire. Ma non è così. L’umarell è l’essenza stessa del talk show, la sua garanzia di sopravvivenza. C’è un momento della vita, infatti, in cui la passione si esalta con la pensione.