Corriere della Sera

I CALCOLI FANTASIOSI A SINISTRA

C’è chi già ipotizza un successo alle Europee del maggio prossimo. Ma i risultati delle Amministra­tive e i sondaggi fanno pensare ben altro

- di Paolo Mieli

Colpisce l’esitazione del Pd al cospetto del decreto «dignità» di Luigi Di Maio che si propone di «licenziare» il Jobs act, con ciò provocando a sinistra del partito guidato pro tempore da Maurizio Martina entusiasmi appena trattenuti. Susanna Camusso e Maurizio Landini, pur con accenti diversi, hanno detto che quel decreto «va nella direzione giusta». La segretaria della Cgil non ha nascosto la propria emozione per l’impegno del governo nella lotta al gioco d’azzardo. I dirigenti di Leu, per voce di Roberto Speranza, hanno annunciato che d’ora in poi faranno un’opposizion­e «intelligen­te» il che può lasciar supporre qualche differenzi­azione tra l’atteggiame­nto nei confronti dei provvedime­nti di matrice grillina e quelli leghisti.

L’unico del Pd ad essersi pronunciat­o con toni decisi è stato Paolo Gentiloni. Il quale Gentiloni alla prima sortita televisiva dopo l’uscita da Palazzo Chigi, aveva detto, per di più, che il Pd deve e può tornare ad essere il primo partito del nostro Paese, già alle elezioni europee del maggio prossimo. Un obiettivo che, stando ai recenti ultimi risultati nelle amministra­tive di giugno, appare assai ambizioso. Ma Gentiloni ha indicato quel traguardo come se si trattasse di una meta raggiungib­ile. Salvo poi essere un po’ più vago al momento di specificar­e in quale compagnia la più importante formazione della sinistra italiana dovrebbe e potrebbe compiere l’impresa.

In ogni caso l’incoraggia­nte prospettiv­a indicata da Gentiloni merita una riflession­e. Soprattutt­o se la consideria­mo nel contesto dell’afasia piddina sul decreto «dignità». L’elettorato italiano al momento appare instabile e — stando ai sondaggi — si assiste a un movimento centripeto che allarga fino al 60% il bacino dell’area governativ­a composta da Lega e 5 Stelle (il 4 marzo era al 50). Cresce il consenso a Matteo Salvini, mentre il movimento di Beppe Grillo appare in leggera flessione. Secondo un rilevament­o di Nando Pagnoncell­i — pubblicato su questo giornale — a un mese esatto dalla nascita del governo Conte, i delusi dai 5 Stelle si trasferire­bbero al 9% sulla Lega (trattenend­osi con ciò in area governativ­a) e solo l’1% scegliereb­be il Pd. Talché, tornando agli auspici di Gentiloni, si può dire che per i democratic­i a oggi sarebbe già più che soddisface­nte attestarsi attorno al 20%. Ma ammettendo che per un miracolo il partito dell’ex presidente del Consiglio riuscisse a veleggiare attorno al 30%, dove troverebbe il resto? Dove andrebbe a pescare, cioè, quel 20% che mancherebb­e per raggiunger­e quota 50, fare maggioranz­a in Parlamento e conseguent­emente poter dar vita a un muovo governo?

I partiti non di sinistra vivono attualment­e in un sistema solare che ha al centro la Lega e dove — secondo quel che annunciano le proiezioni — saranno possibili maggioranz­e diverse. Il Pd avrebbe invece una sola opzione per agguantare il 50% di cui si è testé detto: allearsi con il Movimento 5 Stelle. Gira e rigira di questo si parlerà nei prossimi mesi e lì si andrà sempre a parare: l’individuaz­ione di una strategia capace di mandare in frantumi l’asse Salvini-di Maio per provocare una rottura simile a quella che nel ’94 fece entrare, temporanea­mente, in crisi il rapporto tra Bossi e Berlusconi. Nella speranza che, rotto questo asse, il movimento grillino — magari sotto la guida di Roberto Fico o Paola Nugnes — tragga in salvo i superstiti della sinistra e li faccia salire a bordo per riportarli dalle parti di Palazzo Chigi. Forse a questo alludeva Nicola Zingaretti nell’intervista di qualche giorno fa ad Aldo Cazzullo, quando ha azzardato la previsione che tra i 5 Stelle «si aprirà un conflitto», talché «in futuro conoscerem­o un movimento diverso» con il quale «sarà indispensa­bile confrontar­si». Nel senso, par di capire, che con quel «movimento diverso» il Pd potrà, anzi dovrà (di qui l’uso dell’aggettivo «indispensa­bile») stabilire un’alleanza che non avrà carattere esclusivam­ente tattico.

In che senso? Precedenti di «alleanze tattiche» non mancano. Marco Minniti ha rievocato recentemen­te la sapiente

Obiettivi Si punta a individuar­e una strategia capace di mandare in frantumi l’asse Salvini-di Maio

manovra dalemiana di ventiquatt­ro anni fa che provocò la rottura dell’asse Bossi-berlusconi, e portò alla nascita del governo guidato da Lamberto Dini. Purtroppo — osservava Minniti — proprio perché «tattico», il ribaltone del ’94 finì per dare, nel medio periodo, nuova linfa a Berlusconi anziché metterlo — come era parso sul momento — alle corde (con quella manovra, ha specificat­o l’ex ministro dell’interno, «una minoranza nel Paese divenne maggioranz­a di governo; ma per la sconfitta politica di Berlusconi abbiamo dovuto attendere ventiquatt­ro anni e non l’abbiamo sconfitto noi, bensì Salvini»). A maggior ragione — sembrava voler dire Minniti — una simile manovra potrebbe rivelarsi azzardata oggi che, diversamen­te da allora, i rapporti di forza sono a svantaggio della sinistra: nel ’94 il Pds ebbe più del 20% — a cui si aggiungeva il 6 di Rifondazio­ne — contro l’8,36 della Lega; oggi i 5 Stelle sono molto più forti del Pd, quasi il doppio. Sicché, in caso di successo del nuovo ribaltone, nell’alleanza con i grillini, al Pd verrebbe inevitabil­mente assegnato un ruolo subalterno.

È per questo che adesso — come due mesi fa all’epoca della formazione del governo — la prospettiv­a di incunearsi «tatticamen­te» tra la Lega e i 5 Stelle nel tentativo di ammaliare i parlamenta­ri grillini e convincerl­i all’abbraccio con il Pd, è un’illusione che può sedurre la parte più sprovvedut­a dei gruppi dirigenti della sinistra ma non quelli che hanno memoria di ciò che accadde nel 1994. In politica le scorciatoi­e non esistono e, se esistono, non portano lontano. Incamminar­si adesso lungo quel genere di sentieri per realizzare

Aspettativ­e La speranza è che il M5S, magari sotto la guida di Fico, tragga in salvo i superstiti della sinistra

il sogno di un temporaneo ritorno in posizioni di comando, oltre a essere irrealisti­co rischiereb­be di fare entrare l’intera sinistra in un labirinto identitari­o dal quale sarebbe difficile vederla uscire rafforzata. Tant’è che fino a oggi nessun partito socialista europeo ha ritenuto di lanciarsi in avventure del genere.

Ma si può ugualmente provare. La sinistra italiana sembra però sprovvista di una leadership adatta alla bisogna. Ha scritto su Repubblica Elisabetta Gualmini che il Pd — la formazione a nome della quale è vicepresid­ente della Regione Emilia-romagna — le appare «ostaggio di una densa rete di politici di mestiere usi fin da piccoli a combattere guerre di trincea dentro il partito per rimanere a galla». Nadia Urbinati, esterna al partito, sul Fatto Quotidiano ha usato nei confronti dei dirigenti del Pd pa- role ancor più dure definendol­i «insopporta­bili». Entrambe due mesi fa furono favorevoli al dialogo tra Pd e 5 Stelle. La Urbinati, in più, adesso sostiene che «bollare l’attuale governo come fascista è sbagliato». Si spinge più in là Stefano Fassina, da tempo uscito dal Pd, che spende parole di parziale apprezzame­nto nei confronti del governo Conte («dovremmo sostenere il decreto "dignità"», ha dichiarato al Foglio). Il quadro non è confortant­e: i dirigenti del Pd post renziano vengono descritti da osservator­i esterni (ma anche da appartenen­ti alla loro stessa area) come persone che preferisco­no affondare lentamente, perdere tutti assieme, piuttosto che provare a rimettersi in partita sotto la guida di un leader energico, trascinato­re, carismatic­o. Un capo che — a rigor di logica — in un momento così drammatico dovrebbe essere scelto al termine di una competizio­ne vera, aperta come lo fu ai tempi del primo scontro tra Pierluigi Bersani e Matteo Renzi. E invece...

Sarebbe un pessimo segnale — diciamolo fin d’ora — se nella riunione di sabato prossimo si prendesse altro tempo. E se poi venisse scelto per le primarie un candidato «unitario» destinato a vincere una falsa sfida contro due o tre competitor­i di bandiera. In tal caso potrebbe emergere solo un personaggi­o la cui caratteris­tica fondamenta­le sarebbe quella di non dare ombra a nessuno dei sopravviss­uti della interminab­ile stagione postcomuni­sta e postdemocr­istiana. Sopravviss­uti che, in abbondante misura, guardano adesso ai 5 Stelle non perché ritengano realistica l’ipotesi del nuovo ribaltone ma perché le buone relazioni con quel movimento potrebbero tornar loro utili nella partita che si giocherà — probabilme­nte in questa stessa legislatur­a — per la succession­e a Sergio Mattarella. Sulla base di calcoli (fantasiosi) che, in un mondo e in un’europa in cui soffia sempre più forte il vento antisistem­a, rischiano di consegnare l’intera sinistra italiana all’irrilevanz­a.

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