«Così salveremo i 13 nella grotta»
Tutto si sta tentando per tirare fuori i dodici ragazzini thailandesi intrappolati con l’allenatore nella grotta: un insieme di idee, di fretta e di speranze.
Una mattina hanno sentito il canto d’un gallo, come un’alba di rinascita. Un’altra volta l’abbaiare d’un cane, come la voce d’un soccorso. Un’altra ancora sono arrivati i gridolini di bambini che giocavano chissadove, come spiriti della foresta che indicavano una strada. I dodici sepolti vivi sono sicuri. E ieri l’hanno detto ai sub: «Abbiamo sentito dei rumori da fuori!». Non sanno quand’è successo: dispersi nel buio di undici giorni uguali alle notti, nel silenzio di questa grotta che stava diventando la loro tomba, i baby-calciatori e il loro allenatore a un certo punto hanno scoperto che là sotto, a 800 metri di profondità, da qualche parte entravano suoni. Sì, suoni. D’animali. Di persone. Di vita. «E se hanno potuto sentire quei rumori dall’esterno — ipotizza Claus Rasmussen, uno speleologo danese infangato alle ginocchia —, significa che forse c’è un passaggio naturale, un pozzo che porta fino a loro…».
Uno spiraglio per tirarli fuori, chi lo sa. Senza costringerli a inabissarsi a nuoto nel pantano, senza trivellare gallerie sulla loro testa, senza trascinarli come pacchi. Senza passare dall’impossibile entrata principale. «Quest’area è poco mappata. Ed è possibile che ci siano cunicoli sconosciuti».
Tutto si tenta. La Vermicino della Thailandia è un formicaio d’idee, di fretta, di speranze. Un primo ministro che s’informa, generali che si riuniscono. Bonzi che meditano sul buco nero, medici in arancione che s’aggirano pensierosi come monaci buddisti. Un migliaio di geologi, dottori, militari, marines della base americana, volontari d’undici Paesi, dalla Cina all’australia. Gli israeliani hanno mandato walkie-talkie che non hanno bisogno di frequenza, perché si sa che chi salva una vita salva l’umanità. Gli svedesi forniscono maschere speciali per chi non sa andare sott’acqua. Dirette tv no stop, dove per ora si spiega l’arte dello scuba.
Domani s’aspettano altre piogge, i contadini intorno lavorano senza sosta per deviare i torrenti il più possibile lontano dalla grotta, le pompe aspirano dalla cava un milione e mezzo di litri d’acqua all’ora. Non basterà, la roccia è troppo porosa e il rischio è che il tunnel s’allaghi fino ai ragazzi. Oggi si voleva tentare il primo recupero, ma l’acqua è ancora troppo alta. «E comunque non usciranno tutti insieme», spiega il governatore Osatanakorn. A parte due o tre, molti dei bambini sperduti non sanno nuotare ed è durissima attraversare le quattro grandi pozze sotterranee che dividono dalla salvezza: perfino i due eroi inglesi del ritrovamento ci hanno messo tre ore per fare due chilometri, controcorrente e aggrappati alle pareti viscide.
«Chi è pronto, esce prima»: da laggiù, arrivano i video delle lezioni di nuoto, con le pinne e le bombole. Ma bisogna insegnare tutto, e velocemente, a chi non galleggia e si trova i muscoli atrofizzati. «Il
È una corsa contro il tempo per i calciatori imprigionati in Thailandia: l’acqua è ancora troppo alta per il salvataggio e domani si aspettano altre piogge. Il coach sotto accusa sui social
mio Peerapat un po’ sa cavarsela», raccomanda un padre, Somboon Sompiangjai, 38 anni. Ha riconosciuto il figlio nelle nuove immagini girate dai Navy Seals Thai, affaticato e avvolto nel mylar argentato sullo scoglio fangoso che chiamano Pattaya Beach, neanche fosse una spiaggia da sogno, e ora mostra com’era bello prima dell’incubo, quando giocava a pallone e segnava mettendosi il pollice bocca: «Mi fa male vederlo conciato così, spero esca presto».
Presto, è la parola. Per i monsoni previsti da lunedì e per come si sopravvive là sotto. Ci sono dieci incursori e due medici, assieme ai sepolti vivi. Li nutrono, li rincuorano. Chi è messo peggio è l’allenatore. Distrutto dal senso di colpa d’avere organizzato una gitarella incosciente. Debilitato perché in questi giorni ha bevuto solo l’acqua piovana che filtrava nella grotta, nell’umido di 26 gradi: gli snack rimasti nello zaino, Ekapol «Aek» Chantanong, 25 anni, un gran tatuaggio fasciante sul polso, ha preferito darli alla squadra dei suoi smagritissimi Moopa, i Cinghiali. «È una gran persona — lo difendono molti genitori della scuola —, ha creato molto affiatamento nella squadra di calcio. E poi non è colpa sua: quando l’ha portata nelle grotte, non stava piovendo».
Ogni mattina, tremila studenti e duecento professori dell’istituto di Mae Sai si trovano nel cortile e rispondono al «wai» che i loro compagni hanno mandato dalla caverna, il saluto a mani giunte: «Ekapol è stato bravo a tenere tutti calmi per 220 ore». Pochi
La speranza
«Hanno sentito rumori dall’esterno, forse c’è un passaggio naturale, che porta fino a loro»
polemizzano. Da Facebook, si capisce che per il coach l’escursione nei canali sotterranei di Tham Luang era un’abitudine: Aek ci aveva portato i Cinghiali anche a dicembre, periodo secco, e tutti s’erano fatti i selfie proprio dove ora sono prigionieri. Un carismatico coach: «Mio figlio stava col gruppo anche fino alle nove di sera — racconta il papà di Mongroi Boonpiam, 13 anni —. Andavano alle cascate, sconfinavano con le bici in Birmania. A me sembrava troppo piccolo per fare queste cose, e glielo dicevo. Ma non voleva saperne». Qualcuno sui social chiede che l’arrestino, l’allenatore Aek. La polizia per ora tace: la sua condanna, è già quella faccia stanca che aspetta la luce assieme ai suoi ragazzi.