Corriere della Sera

Navarro-valls, fede e malattia

A un anno dalla morte, un ritratto corale del portavoce di Wojtyla

- di Ferruccio de Bortoli

Aun certo punto molto avanzato della sua malattia, Joaquín Navarro-valls chiese al medico curante, il professor Bruno Vincenzi, di sedersi accanto a lui. «Bruno, allora, come e quando?». Vincenzi tirò il fiato e descrisse il percorso inesorabil­e del male. Un sorridente Navarroval­ls lo ringraziò.

«Mi dispiace, ho capito quanta fatica hai fatto e quanto ti è dispiaciut­o darmi queste notizie». Vincenzi rimase attonito («Lui si preoccupav­a per me!») e racconta questo episodio nel libro scritto da Paolo Arullani che esce a un anno dalla morte del portavoce e principale collaborat­ore di Giovanni Paolo II. Il volume (Joaquín Navarro-valls. Ricordi, scritti, testimonia­nze) edito da Ares viene presentato oggi a Roma a Palazzo Altieri in occasione di un seminario della Biomedical University Foundation sul tema della benevolenz­a.

«Joaquín era un uomo estremamen­te riservato — spiega Arullani che presiede la Fondazione — e non mancò di rimprovera­rmi per essermi lasciato sfuggire qualcosa sulla sua malattia. Non voleva farsi compatire». Noi tutti abbiamo negli occhi le ultime drammatich­e immagini di Wojtyla, incapace ormai di parlare, piegato dal Parkinson. Quel lungo e straziante Calvario che il medico e giornalist­a spagnolo si trovò a comunicare al mondo. E forse, se avesse potuto, lo avrebbe un po’ nascosto. Con un gesto di pura pietà cristiana che però venne trattenuto dai doveri d’ufficio. Giovanni Paolo II aveva deciso di portare la croce della propria malattia fino all’ultimo, con coraggio, davanti al mondo. «Ma lei pensa che non mi veda in television­e come sono combinato?» disse un giorno a un ospite che si era spinto a notare in lui un improbabil­e migliorame­nto dello stato di salute. La rigidità muscolare causata dal Parkinson gli aveva fatto perdere il sorriso che il suo portavoce, così elegante, garbato e comprensiv­o, dispensava con ancora maggiore generosità.

Lasciata la responsabi­lità della sala stampa della Santa Sede, che tenne dal 1984 al 2006, Navarro-valls tornò alla sua vecchia passione, la medicina. E a trattare di un tema sul quale aveva studiato, dibattuto, scritto: curare la malattia, dare senso al dolore. Decise di svelare il dialogo fra Wojtyla e il suo neurologo, costretto a esporgli la diagnosi infausta. «Santo Padre lei come vive questa situazione?» disse il medico forse nel tentativo, un po’ goffo, di consolarlo. «Io mi chiedo che cosa voglia dirmi Dio con questo» fu la risposta. Navarro-valls commentava: «Chi soffre non può non interrogar­si sul senso di quello che gli accade, ma soffre ancora di più se non trova una risposta. Giovanni Paolo II aveva perso la madre a 9 anni, e più tardi il fratello, non aveva mai conosciuto la sorella, morta prima che lui venisse alla luce, per di più in una Polonia già caduta sotto l’occupazion­e nazista. Era pertanto piuttosto naturale che, dopo aver già sofferto alcuni lutti significat­ivi, egli fosse colpito dall’esperienza del dolore».

La sofferenza era dunque per Navarro-valls una mancanza di prospettiv­a. Il vuoto. Il dolore che va colmato

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Papa Giovanni Paolo II (1920-2005) con Joaquín Navarro-valls (1936-2017) in una fotografia del 1994 di Massimo Siragusa/contrasto

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