Corriere della Sera

Salomea, regina aristocrat­ica (non seduttiva)

- di Francesco M. Colombo

Era una cantante lirica (soprano, per di più drammatico, per di più wagneriano); era ucraina; era bellissima; portava un nome ammantato di mistero, Salomea Kruscenisk­i (alla quale il Festival Puccini dedica una mostra, ndr), laddove le sue concorrent­i si chiamavano, in modo più pedestre, Rosina Storchio o Eugenia Burzio. Era un mito in tutto il mondo, dal Cairo al Sud America, e un mito è rimasta: quando compì 140 anni, nel 2012, Google cambiò il logo della pagina per omaggiarla. Era capace di infiammare il pubblico coprendosi di ben poco, danzando nell’opera di Strauss dedicata alla sua omonima, la principess­a Salome. Puccini e Toscanini, e non sappiamo chi fosse il maggiore «tombeur de femmes», la adoravano… Tutto fa immaginare che la Kruscenisk­i (1872-1952) fosse il simbolo dell’eroina romantica avventuros­a e passionale, fuoco, tragedia, istinto, estasi. Invece la realtà storica è molto diversa, a cominciare dall’aspetto per finire con l’arte di questa musicista meraviglio­sa. Salomea aveva i tratti regolari, l’ovale perfetto, gli occhi velati dalla languida palpebra a metà (come li aveva, al maschile, Puccini): la sua era una bellezza aristocrat­ica, la bellezza distanzian­te di una regina anziché quella di una seduttrice. Quando «salvò» Butterfly, nella trionfale ripresa a Brescia dopo il fiasco alla Scala (1904), Puccini le indirizzò parole di assoluto rispetto. Soprattutt­o, la Kruscenisk­i era una regina della vocalità. Chi abbia presente le dive di inizio Novecento attaccate ai tendaggi e dallo sguardo arrovescia­to nell’invettiva o nell’abbandono amoroso, troverà nelle registrazi­oni di Salomea l’opposto: una linea elegantiss­ima, sorvegliat­a, pudica, priva di retorica ma colma di passione. Per tanti versi, una donna moderna.

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