Salomea, regina aristocratica (non seduttiva)
Era una cantante lirica (soprano, per di più drammatico, per di più wagneriano); era ucraina; era bellissima; portava un nome ammantato di mistero, Salomea Krusceniski (alla quale il Festival Puccini dedica una mostra, ndr), laddove le sue concorrenti si chiamavano, in modo più pedestre, Rosina Storchio o Eugenia Burzio. Era un mito in tutto il mondo, dal Cairo al Sud America, e un mito è rimasta: quando compì 140 anni, nel 2012, Google cambiò il logo della pagina per omaggiarla. Era capace di infiammare il pubblico coprendosi di ben poco, danzando nell’opera di Strauss dedicata alla sua omonima, la principessa Salome. Puccini e Toscanini, e non sappiamo chi fosse il maggiore «tombeur de femmes», la adoravano… Tutto fa immaginare che la Krusceniski (1872-1952) fosse il simbolo dell’eroina romantica avventurosa e passionale, fuoco, tragedia, istinto, estasi. Invece la realtà storica è molto diversa, a cominciare dall’aspetto per finire con l’arte di questa musicista meravigliosa. Salomea aveva i tratti regolari, l’ovale perfetto, gli occhi velati dalla languida palpebra a metà (come li aveva, al maschile, Puccini): la sua era una bellezza aristocratica, la bellezza distanziante di una regina anziché quella di una seduttrice. Quando «salvò» Butterfly, nella trionfale ripresa a Brescia dopo il fiasco alla Scala (1904), Puccini le indirizzò parole di assoluto rispetto. Soprattutto, la Krusceniski era una regina della vocalità. Chi abbia presente le dive di inizio Novecento attaccate ai tendaggi e dallo sguardo arrovesciato nell’invettiva o nell’abbandono amoroso, troverà nelle registrazioni di Salomea l’opposto: una linea elegantissima, sorvegliata, pudica, priva di retorica ma colma di passione. Per tanti versi, una donna moderna.