Le critiche, poi il successo La storia del «Trittico» e di cent’anni di modernità
Il 2018 segna il centenario della prima rappresentazione del Trittico, avvenuta a New York il 14 dicembre 1918.
L’idea di tre atti unici iniziò a delinearsi nella mente del musicista già da inizio secolo (come in pittura, il termine indica la giustapposizione di tre immagini), con la Divina Commedia come fonte d’ispirazione; non a caso vari critici hanno creato un parallelismo delle tre parti con le Cantiche dantesche: Il Tabarro – Inferno, Suor Angelica – Purgatorio e Gianni Schicchi – Paradiso. Un dramma noir che si svolge sulle rive della Senna il primo: il cinquantenne Michele sospetta di adulterio la giovane moglie Giorgetta; quando una sera il marito accende la pipa, l’amante Luigi, ventenne, crede sia il segnale e si reca sul barcone di Michele. Questi lo costringe a confessare e poi lo uccide, avvolgendolo nel tabarro; quando arriva Giorgetta, chiesto al marito di essere avvolta nel tabarro come un tempo, si ritrova davanti la faccia dell’amante morto.
E ancora, andando avanti. Come tante sue consorelle, Suor Angelica vive la clausura come un mondo opprimente, di mortificazione e ferree regole; costretta al chiostro da sette anni per aver concepito un figlio illegittimo, vive tra tormenti e brevi momenti di luce (gli unici tre tramonti che in un anno, solo a maggio, riescono a vedere uscendo dal coro); arriva la zia principessa per costringerla a firmare una carta per la suddivisione del patrimonio di famiglia e le comunica con freddezza che il figlio è morto. Suor Angelica è distrutta e si suicida, pentendosi quando ha la visione della Vergine che le porge un bambino in segno di perdono.
Questi due titoli non ebbero inizialmente fortuna: duri i giudizi dei critici, Toscanini biasimò del Tabarro la cupa monotonia e il realismo violento e volgare della musica, quella di Suor Angelica fu valutata «troppo poco raffinata per essere naturale».
Anche per questo, e contro l’espressa volontà di Puccini, già l’editore Ricordi permise che i tre titoli venissero rappresentati separatamente; a metà secolo si rivalutò la qualità del realismo del Tabarro, con la Senna evocata come una nebbia maligna che avvolge l’esistenza squallida e faticosa dei vinti, persone sconfitte dalla vita come Suor Angelica: qui le pennellate uniformi e i colori sfumati suggeriscono la clausura non con realismo ma come dimensione psicologica.
I favori di critica e pubblico arrisero da subito solo a Gianni Schicchi, il furbo fiorentino che sostituendosi al defunto Buoso Donati detta al notaio il testamento a favore suo e della figlia Lauretta, fidanzata con Rinuccio Donati: un atto grottesco dove i personaggi, quasi un vero coro da camera, intessono un linguaggio moderno fatto anche di episodi politonali e dissonanze in cui si staglia ancor più sorprendente il patetico lirismo di «O mio babbino caro».