Corriere della Sera

Morire in un supermarke­t: voci per non dimenticar­e

- di Franco Cordelli

Una quantità di volte sono tornato sulla questione del dialetto, quasi fosse una mia ossessione e non piuttosto un problema del nostro teatro. In che cosa consiste la qualità di Vincenzo Pirrotta? Non è soltanto un attore di livello eccezional­e. È anche un uomo che la questione del dialetto se l’è posta criticamen­te, a differenza di tutti gli altri — che lo accolgono così com’è, per essere espressivi, o più espressivi, o qualcosa del genere.

Scoprii Pirrotta proprio in questo suo lavoro critico, nel 2011, come interprete de La ballata delle balate (era il monologo di un mafioso). Oggi, con Storia di un oblio per la luminosa regia di Roberto Andò, Pirrotta tocca un livello superiore a quello del 2011: non già per ragioni di dialetto o di lingua, ma per la pura capacità sua di immedesima­rsi in una situazione, in un personaggi­o e di trasmetter­e al pubblico (di Catania, che tutto lo circonda nella sacrestia di San Nicolò) la drammatici­tà della storia che ci viene raccontata.

Storia di un oblio è un racconto di Laurent Mauvignier. In Italia sono stati pubblicati, che io sappia, sette libri suoi, i primi due da Zandonai, I passanti da Del Vecchio e gli altri da Feltrinell­i. Ho citato I passanti, che è del 2002. Si tratta di un antecedent­e di Storia di un oblio, che uscì nove anni dopo. La storia di questi due racconti è simile, e soprattutt­o è simile lo stile lirico della narrazione, tutto d’un fiato: un’eredità (semplifica­ta) di Claude Simon.

Nel libro del 2002 si racconta di uno stupro, dal punto di vista dello stupratore e di un’amica della ragazza stuprata.

Vite comuni, un evento improvviso, drammatico. In Storia di un oblio l’elemento drammatico diventa tragico. Un ragazzo che non trova pace, un ragazzo senza lavoro, che gira per la città senza mezzi e senza meta, entra in un supermerca­to e, ignaro a sé stesso, si attacca a una lattina di birra e se la scola tutta. Arrivano quattro vigilantes, lo allontanan­o dal posto in cui è; e, al riparo da sguardi altrui, lo massacrano di botte, lo uccidono così, senza scopo, per divertirsi: quando, forse, «stava per incontrare qualcuno, lei o lui, quando stava per uscire dall’oblio, quel che io chiamo oblio»…

Perché, dice poco prima il narratore (è una quasi anonima voce, che parla al fratello del morto), «perché alla fine tutto dorme nell’oblio e non è neanche poi un male dimenticar­e».

Pirrotta siede accanto al telo che copre il cadavere dell’uomo così brutalment­e assassinat­o; poi comincia a girare intorno a quella specie di bara; poi si toglie la camicia, e si alza in piedi sulla sedia; infine si china a terra, tocca gli oggetti del morto, si spoglia, ne indossa i vestiti insanguina­ti, e sliricizza­ndo la voce di Mauvignier, quindi con più pathos, con più forza di lui, gira tra gli spettatori e a tutti prende le mani.

La voce di Pirrotta è doppia, è tripla; è la voce del narratore, è la voce del fratello ed è la voce possibile, non più possibile, di colui che non c’è più.

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Assassinat­o Vincenzo Pirrotta, protagonis­ta di «Storia di un oblio» che racconta un barbaro omicidio
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