Corriere della Sera

GLI OPPOSTI INTERESSI SUI CONFINI

Scenari Rimane un mistero come sia pensabile essere aperti alla globalizza­zione quando si fa impresa e poi pretendere di combatterl­a chiudendos­i una volta a casa

- Di Ferruccio de Bortoli

D agli alleati mi guardi Iddio. Nei prossimi giorni è previsto a Innsbruck un vertice a tre. Con Matteo Salvini e i suoi omologhi: l’austriaco Herbert Kickl e il tedesco Horst Seehofer. In apparenza protagonis­ti di un muscolare patto sovranista. In realtà con interessi divergenti. Germania e Austria vogliono rimandarci indietro gli immigrati registrati in Italia e arrivati nei loro Paesi. E hanno minacciato di chiudere addirittur­a le frontiere. O meglio sospendere il trattato di Schengen. Ora proviamo a immaginare che cosa accadrebbe al Brennero, il più importante dei valichi. Al di là dei costi, si formerebbe­ro subito interminab­ili code. Ogni giorno feriale passano nelle due direzioni ottomila Tir. Messi in fila fanno cento chilometri. Il blocco degli scambi lungo quella che è la più grande arteria economica europea danneggere­bbe soprattutt­o l’industria del Nord Est, le regioni a guida leghista. Una sorta di infarto dell’apparato produttivo. Dopotutto il cancellier­e austriaco, se prendesse una simile, per quanto remota decisione, non farebbe altro che dar seguito ai propri intendimen­ti. Perseguend­o con coerenza, che anche gli altri esponenti sovranisti rivendican­o, il blocco del movimento degli immigrati. Lo stesso Salvini non ha mancato di dire che, se necessario, anche l’italia dovrebbe ricorrere a una misura analoga. Ma a quel punto, davanti alla paralisi della nostra industria, il cancellier­e austriaco Sebastian Kurz sarebbe ancora un alleato?

Un certo imbarazzo nel difendere le ragioni austriache si coglieva anche nell’intervista rilasciata giovedì scorso al Corriere dal presidente della provincia autonoma di Bolzano. «L’annuncio della chiusura dei confini è partito dalla Germania non dall’austria — dichiarava Arno Kompatcher — Kurz si è mosso di conseguenz­a». Mancava solo l’applauso. E il tutto avviene, altro paradosso, mentre in giugno dal Brennero non è passato nessun migrante indesidera­to. Non crediamo che nel prossimo incontro di Innsbruck si parlerà dello stato di avanzament­o del traforo del Brennero che dovrebbe irrobustir­e i collegamen­ti lungo l’asse tra Monaco e Verona, altra opera fondamenta­le per il futuro dell’industria italiana. Piaccia o no ai Cinque Stelle. Ma sarebbe opportuno che Salvini ne parlasse nella sua qualità di vice premier. Sono stati già scavati 84 chilometri di gallerie su un totale di 230. Il traforo con tre tubi di 55 chilometri dovrebbe entrare in esercizio nel 2028. Già spesi 1,7 miliardi su un totale di 8,38. Tra i partner Italia e Austria sono nei tempi previsti. I tedeschi, ed è questa la sorpresa, no. Sono in ritardo nel realizzare le tratte d’accesso al tunnel di base. Ricordargl­ielo almeno?

Quella del Brennero è una perfetta metafora delle contraddiz­ioni del leghismo di governo. Peraltro emerse anche nel sofferto varo del cosiddetto decreto «dignità» con misure che riducono la flessibili­tà nell’uso dei contratti a termine nell’intento di favorire, ma è difficile, una maggiore stabilizza­zione del lavoro. Decisioni non certo gradite alle imprese, come il freno alle delocalizz­azioni. Il segretario leghista del Veneto Toni Da Re ha detto ieri al Corriere che «così si tagliano le gambe alle aziende, con queste regole anch’io non assumerei nessuno». «Sono chiari i profili di due espression­i della Lega — spiega Paolo Feltrin, docente di Scienza politica

Proiezione esterna L’italia ha tutto l’interesse a rimanere aperta e credibile sui mercati internazio­nali

a Trieste — pochi hanno notato che a Pontida, il governator­e Luca Zaia e i veneti sono andati esibendo orgogliosa­mente il rosso veneziano di San Marco. A loro il blu di Salvini piace poco. Nel Nord Est la Lega tradiziona­lmente non fa nulla contro le imprese. Treviso aveva in Gentilini il sindaco più antimmigra­ti. Le aziende continuava­no a cercarli e ad assumerli».

Il decreto «dignità» (sui criteri d’urgenza ci sarebbe molto da dire) è stato presentato come un successo pentastell­ato nello smantellar­e il Jobs Act. Il leader della Lega si è affrettato a chiarire che il Parlamento lo potrà certamente migliorare. Assai strano che lo dica un vicepresid­ente del Consiglio quasi a volersi dichiarare estraneo alla scrittura del provvedime­nto. Come se il suo vice di partito, il sottosegre­tario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, non lo avesse orgogliosa­mente mostrato, insieme al premier Giuseppe Conte e al ministro dello Sviluppo e del Lavoro Luigi Di Maio, durante la conferenza stampa a palazzo Chigi. Un decreto preterinte­nzionale allora, il risultato di una divisione delle aree di pertinenza più che il frutto di un’alleanza di governo.

Le contraddiz­ioni non finiscono qui. La polemica di Salvini con il presidente dell’inps Tito Boeri è stata aspra. Lasciamo per un attimo da parte il tema assai delicato della sostenibil­ità futura del sistema pensionist­ico e del rapporto fra chi lavora e chi è in quiescenza. Sarebbe interessan­te, se è vero che gli italiani sono ansiosi di ricoprire i posti di lavoro degli immigrati come afferma Salvini, chiedere alle aziende, magari alle stesse del Nord Est di cui sopra, se potrebbero andare avanti con la sola manodopera interna. Domanda da porre anche a molte aziende agricole. E ancora, sulla questione dei dazi, se non si sentano già danneggiat­e dalla guerra protezioni­stica in atto. «Il livello di attenzione sui rischi del protezioni­smo — aggiunge Daniele Marini, docente di sociologia all’università di Padova e promotore della Community Media Research — si è moltiplica­to in questi anni. Il grado di inter- nazionaliz­zazione dell’intera economia del Nord Est è cresciuto. E ha toccato per la prima volta anche gli artigiani, che ora vendono anche all’estero. La Lega in Veneto, che ha beneficiat­o anche della rabbia dei risparmiat­ori per gli scandali bancari, è pragmatica, concreta, bada al sodo. Prima viene il lavoro».

Un Paese come l’italia, che vende all’estero prodotti per più di 400 miliardi, ha tutto l’interesse a rimanere aperto e credibile sui mercati internazio­nali, salvo difendersi, come è giusto, dalle pratiche scorrette. Difesa possibile però solo a livello di Unione Europea. In altri modi è del tutto velleitari­o. Solo propaganda. Nei principali distretti produttivi del Nord, il 4 marzo la Lega ha ottenuto risultati straordina­ri. Marini fa qualche esempio. Arzignano e Chiampo (Vicenza), distretto della concia, con consensi al 40 per cento; Montebellu­na e Altivole (Treviso), calzature sportive, con punte al 45 per cento; immigrati al lavoro ormai da trent’anni, grandi vendite all’estero. Come sia pensabile essere aperti alla globalizza­zione durante l’orario di lavoro e pretendere di combatterl­a chiudendos­i una volta a casa, rimane un mistero. Contraddiz­ione dalla quale, in fondo, nessuno di noi, in tutta sincerità, è esente. Consideria­mo gli immigrati integrati, specie quelli che ci aiutano in casa o si prendono cura degli anziani, cittadini italiani a pieno titolo. Ancora di più di quello che avrebbe previsto lo ius soli. Una legge che i più non hanno voluto e non vorrebbero.

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