La nuova vita di Gio Ponti
Una mostra a Parigi, a ottobre, celebra l’architetto che seppe unire un rigoroso senso della funzionalità a una inesauribile fantasia (persino nel cinema)
«Sono vissuto in un periodo eccezionale». Così Gio Ponti, con modestia, spiegava il perché del suo lavoro, denso, variegato, precorritore, che ha attraversato ben sei decenni: una visione tra arte e artigianato, a cui si aggiunsero nel tempo l’architettura, il design, l’arredamento di interni (privati e pubblici) ma anche la scenografia teatrale e l’ideazione di costumi per i balletti. Tutto questo si vedrà in una grande mostra a Parigi, che inaugura il 19 ottobre al Musée des Arts Décoratifs con il titolo Tutto Ponti, Gio Ponti archi-designer.
Un asse Italia-francia sancito dal sostegno di Molteni & C, mecenate della mostra (che presterà anche arredi originali dal Molteni Museum), e dalla doppia curatela di Salvatore Licitra, nipote di Ponti e responsabile dell’archivio storico, e Sophie Bouilhet-dumas: «Ci unisce una lontana parentela, e lei si è fatta promotrice di questa mostra. Ma il museo stesso vanta un legame storico con Ponti, di amicizia e attenzione al suo lavoro», racconta Licitra, che ci svela la mostra in anteprima.
Un percorso, basato sulla scansione cronologica, tradizionale solo in apparenza: in realtà il racconto è sull’uomo Gio Ponti, con il suo impeto di passione e curiosità, e l’entusiasmo di esplorare il nuovo. «Per sei decenni ricorrono gli stessi temi ma resi sempre diversi dall’uso di nuove tecnologie e dall’essere adattati ai nuovi modi di vivere. Con un tocco di ironia». Come si coglierà, sottolinea Licitra, già nell’esordio della mostra dedicato al periodo delle ceramiche Richard Ginori, di cui Ponti negli anni ‘20 ebbe la direzione artistica: «C’è un pezzo mai visto prima, un sistema di centrotavola disegnato da Ponti per le ambasciate italiane: ingombrante, classico, eppure elegante e ironico come sapeva essere lui».
Lavori meno noti, che portavano già in sé le tracce del futuro: questo il fil-rouge che lega i pezzi. «Ci sono mobili dagli interni che lui arredò a Padova, alla fine degli anni 30, così essenziali che potrebbero essere degli arredi di oggi. Ma anche quei pezzi colorati, pieghevoli, trasformabili — la serie Apta — che nei primi anni ‘70 rappresentarono per lui l’idea di risolvere l’esigenza di mobili adatti a case piccole». Produttore di quella serie (oggi alcuni arredi sono rieditati da Molteni & C) allora fu Walter Ponti: «Un incontro sul filo della leggerezza. Fu la moglie di Ponti, sconosciuto mobiliere mantovano, a invitarlo a presentarsi a Gio Ponti. “Avete lo stesso cognome: perché non gli proponi di fare dei mobili assieme?”. Mio nonno si divertì all’idea: nacque così la sedia Gabriela — più nota come “sedia di poco sedile” — omaggio alla moglie di Walter Ponti che si chiamava così».
Le architetture sono rappresentate da fotografie e disegni originali: dalla prima, degli anni 20, la casa di Ponti in via Randaccio («Stile neoclassico, rivisitato con freschezza. Lui diceva sempre che è importante saper rileggere il passato per costruire il futuro») a una delle ultime, la cattedrale di Taranto, fine anni ‘60: «Una chiesa senza cupola: Ponti scardina il simbolo dell’apertura verso il cielo, sostituendola con una vela. Un’interpretazione nuova di un luogo di culto».
E poi ambienti virtuali, ricostruiti con proiezioni e arredi veri, e scenografie teatrali (mai esposte prima). Tra cui un documento unico: «Ponti si era messo in mente di fare un film dell’enrico IV di Pirandello: per cui, entusiasta, produsse un rotolo di carta da lucido lungo 30 metri dove rappresentò l’opera con disegni, dipinti acquarellati, collage. Una descrizione minuta come una sceneggiatura. È il mio pezzo del cuore», dice Licitra. Personalità totale, certo, ma Gio Ponti nell’immaginario comune resta prima di tutto un designer: «Il più vicino a noi, perché si inserisce nella scia dei grandi architetti-designer con cui abbiamo collaborato storicamente», precisa Giulia Molteni, responsabile comunicazione di Molteni & C. «Ma soprattutto perché è simbolo di quel modo di progettare democratico tipico del design industriale italiano». Attuale e ammirato, a cui questa mostra parigina renderà omaggio.