Corriere della Sera

Il cuoco Giorgio Locatelli: «La cucina? È un atto d’amore, non uno show»

Il nuovo giudice di Masterchef racconta il taglio che darà al talent

- di Angela Frenda

Giorgio Locatelli non fugge più. Di quel bambino di 7 ani chiamato Houdini per la sua attitudine a scappare in cucina pur di salvarsi dai rimproveri di nonna Vincenzina è rimasto, però, lo sguardo: vivace e aperto. Chiacchier­are con questo 55enne nato a Corgeno di Vergiate, borgo del lago Maggiore, 1 stella Michelin con il suo ristorante londinese Locanda Locatelli, in 8 Seymour Street, è una boccata d’aria fresca in un mondo popolato, talvolta, da star-chef poco simpatiche. Camicia bianca, ancora abbronzato dalla sua recente vacanza in Puglia, dove con la moglie Plaxy ha appena comprato una casa, si racconta per la prima volta da quando è stato annunciato il suo ingresso a Masterchef-italia come giudice. Seduto a tavola, davanti a un tiramisù, spiega perché ha accettato di essere la new entry del programma di cucina più famoso della nostra tv, al posto di Antonia Klugmann. Lui che ruolo avrà? Difficile dirlo, ma sicurament­e, al di là del suo essere un personaggi­o di successo, porterà i tratti di una persona gentile. Che ama definirsi sempliceme­nte «un cuoco». Poi, parlando con lui capisci che nel suo ristorante amato da persone normali e grandi star come Madonna e Nigella Lawson, troverai una sola cucina: quella del cuore. «Il motivo principale per cui ho accettato questa sfida è proprio riuscire a trasmetter­e alle nuove generazion­i che la cucina è un atto d’amore. Non uno show. E anche in tv secondo me può passare un messaggio del genere, se fatto bene. In cucina non esisti solo tu. Lo fai per gli altri. Questo devono ricordarsi i ragazzi che cominciano».

Lei di strada ne ha fatta tanta da quando ragazzino è arrivato a Londra per imparare il mestiere. Erano gli anni Ottanta.

«Sì ho fatto una gavetta lunga e difficile. Dall’86 al Savoy, poi Laurent e Tour d’argent a Parigi. Ed head chef al mitico “Olivo” a Londra, prima di aprire il mio ristorante. Quello che le posso dire è che ho subito tante umiliazion­i. Sono un sopravviss­uto. Sa, per i francesi, ma anche per gli inglesi, ero un italiano... La nostra cucina non aveva preso piede all’estero. La peggiore esperienza è stata però alla Tour d’argent: lo chef Martinez era un animale. Ti colpiva con le stecche se sbagliavi qualcosa. È lì che ho giurato che sarei stato uno chef che lavora con gente contenta. Facendola crescere. Basta violenza in cucina. Basta umiliazion­i. L’immagine di me seduto su un bidone a mangiare una salsiccia a Natale non me la dimentico».

Ricorda il momento in cui ha deciso: faccio il cuoco?

«La mia famiglia aveva un hotel con ristorante dove noi tutti davamo una mano. Io però ero terribile e un giorno, per punirmi, mi spedirono in cucina. Avevo 7 anni. Da lì non sono più uscito. La prima cosa che imparai a fare? La macedonia. Passavo ore attorno al mastello a preparare la frutta. Ancora oggi non temo nessuno nello sbucciare una mela. Il mio mito era uno dei nostri cuochi, Michelacci­o. Uomo eccezional­e. Si presentava con i suoi coltelli e i suoi libri sottobracc­io. Grazie a lui scoprii il testo di Escoffier, che era stato scritto proprio al Savoy. E iniziai a fantastica­re di andar via».

E ha cominciato a insegnare agli inglesi ad apprezzare la cucina italiana.

«Tornato a casa dopo il lungo apprendist­ato, mi chiamaro- no da Londra: cercavano un cuoco italiano. Accettai subito e ripartii dall’artusi: fare una cucina di casa normalissi­ma e rispettosa. Non ci crederà, ma gli inglesi ci hanno capito subito e premiato con la stella. La loro è una cucina onanista, che si guarda dentro. Nel dopoguerra hanno distrutto un patrimonio gastronomi­co. Anche se, sia chiaro, apprezzo molti dei loro chef, come Fergus Henderson: io e Plaxy ci siamo sposati da lui al St John. Suo padre fu il primo, a Londra, a pagarmi da mangiare».

Insomma: meno tecnica più cuore. È questa la sua formula?

«Certo. La mia regola è sempre stata questa. Quando mi metto davanti ai fornelli penso sempre a mia nonna: lei cucinava per noi. Un atto, il suo, di incredibil­e impegno di tempo e passione. Basta esibizioni­smi. Alcuni ristoranti per questo mi infastidis­cono. Anche alcuni pasticcier­i: a volte, non sempre, trovo che in loro ci sia troppa esibizione. Posso confessarl­e una cosa?».

Prego.

«Il segreto del mio, del nostro successo (e guarda la moglie Plaxy che lo osserva all’altro capo della tavola con sguardo adorante, ndr) è che pur avendo la stella abbiamo mantenuto come punto centrale la conviviali­tà. Il riunirsi attorno alla tavola. Niente dress code. Sì a cani e bambini. E se qualcuno storce il naso, pazienza. Attorno alla mia tavola c’è la vita. Quella vera. Per dirle, il figlio di Nigella, Bruno, viene da noi sin da piccolo. Adesso, a 21 anni, quando torna a Londra con la fidanzata americana sa dove la porta? Da noi. A mangiare gli spaghetti all’aragosta, il piatto che gli preparavo da bambino. Ecco, io so che con quel piatto rimarrò nella sua vita per sempre. Anche quando non ci sarò più».

Un ragionamen­to che pone al centro la memoria.

Il segreto del successo per me è mantenere al centro l’idea di conviviali­tà

«Per me la memoria è tutto. Mentre talvolta la creatività allontana dalla realtà. Non bisogna dimenticar­lo».

 ??  ?? Giorgio Locatelli, 55 anni, vive e lavora a Londra dal 1986. Chef del Savoy Hotel, è molto amato dalle star internazio­nali
Giorgio Locatelli, 55 anni, vive e lavora a Londra dal 1986. Chef del Savoy Hotel, è molto amato dalle star internazio­nali

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