Delocalizzazioni, Bekaert e la debolezza della «politica industriale punitiva»
di fronte all’arroganza belga non ha potuto far altro che dichiarare: «Questo governo si premurerà di andare in giro per il mondo a raccontare la poca attendibilità di questa multinazionale, saremo il loro primo sponsor negativo». Che un governo - a prescindere dal colore politico - debba battersi contro le delocalizzazioni è una scelta giusta, il problema però è che bisogna avere le idee chiare. Il caso dell’embraco di Torino è ancora lì a dimostrare come sia difficile spuntarla in queste situazioni.
L’iniziativa della Bekaert ha colto di sorpresa un po’ tutti perché solo sei mesi fa l’azienda aveva illustrato i suoi piani di sviluppo ma qualcosa deve essere cambiato o nei rapporti con il principale cliente (la Pirelli) o nelle strategie globali del gruppo. Che fare? I sindacati nazionali stanno seguendo la vertenza con attenzione e sia Annamaria Furlan sia Marco Bentivogli hanno fatto la voce grossa e invocato l’intervento del ministro. Che nei giorni scorsi un errore però lo ha fatto: intervistato dalla Stampa ha irriso il fondo di 200 milioni contro le delocalizzazioni deciso dal suo predecessore Carlo Calenda per contrastare l’uscita dell’embraco e invece con tutta probabilità dovrà farvi ricorso. Se non si possono erogare multe come si fa a convincere una multinazionale a venire a Canossa? La strada che i sindacati vedono ora è di reindustrializzare l’impianto di Figline (i belgi non vogliono che subentri un concorrente come l’indiana Jindal) ma come il precedente degli elettrodomestici torinesi dimostra tutto passa per l’azione di Invitalia e per la captatio di nuove imprese disposte a farsi carico dell’occupazione.
Le delocalizzazioni non si ripetono così frequentemente e anzi, almeno da parte delle imprese italiane, non è più tempo di andare produrre magliette e scarpe all’est ma in attesa di altre prove di forza Di Maio dovrà rivedere la sua impostazione di politica industriale “rovesciata” e “punitiva”. Non siamo gli States di Trump e di conseguenza Italy first rischia di essere uno slogan vuoto. Bisogna partire dall’attrazione degli investimenti - come era successo per il Suv della Lamborghini-audi che si farà in Emilia e fu strappato alla Slovacchia - e magari dal reshoring. Sono svariati i casi di aziende che vorrebbero riportare in patria le lavorazioni a più alto valore perché qui, tutto sommato, si trovano i tecnici migliori e il manufacturing più avanzato ma per avere speranza di successo occorre presentarsi come un Paese aperto.