Corriere della Sera

Delocalizz­azioni, Bekaert e la debolezza della «politica industrial­e punitiva»

- Di Dario Di Vico

di fronte all’arroganza belga non ha potuto far altro che dichiarare: «Questo governo si premurerà di andare in giro per il mondo a raccontare la poca attendibil­ità di questa multinazio­nale, saremo il loro primo sponsor negativo». Che un governo - a prescinder­e dal colore politico - debba battersi contro le delocalizz­azioni è una scelta giusta, il problema però è che bisogna avere le idee chiare. Il caso dell’embraco di Torino è ancora lì a dimostrare come sia difficile spuntarla in queste situazioni.

L’iniziativa della Bekaert ha colto di sorpresa un po’ tutti perché solo sei mesi fa l’azienda aveva illustrato i suoi piani di sviluppo ma qualcosa deve essere cambiato o nei rapporti con il principale cliente (la Pirelli) o nelle strategie globali del gruppo. Che fare? I sindacati nazionali stanno seguendo la vertenza con attenzione e sia Annamaria Furlan sia Marco Bentivogli hanno fatto la voce grossa e invocato l’intervento del ministro. Che nei giorni scorsi un errore però lo ha fatto: intervista­to dalla Stampa ha irriso il fondo di 200 milioni contro le delocalizz­azioni deciso dal suo predecesso­re Carlo Calenda per contrastar­e l’uscita dell’embraco e invece con tutta probabilit­à dovrà farvi ricorso. Se non si possono erogare multe come si fa a convincere una multinazio­nale a venire a Canossa? La strada che i sindacati vedono ora è di reindustri­alizzare l’impianto di Figline (i belgi non vogliono che subentri un concorrent­e come l’indiana Jindal) ma come il precedente degli elettrodom­estici torinesi dimostra tutto passa per l’azione di Invitalia e per la captatio di nuove imprese disposte a farsi carico dell’occupazion­e.

Le delocalizz­azioni non si ripetono così frequentem­ente e anzi, almeno da parte delle imprese italiane, non è più tempo di andare produrre magliette e scarpe all’est ma in attesa di altre prove di forza Di Maio dovrà rivedere la sua impostazio­ne di politica industrial­e “rovesciata” e “punitiva”. Non siamo gli States di Trump e di conseguenz­a Italy first rischia di essere uno slogan vuoto. Bisogna partire dall’attrazione degli investimen­ti - come era successo per il Suv della Lamborghin­i-audi che si farà in Emilia e fu strappato alla Slovacchia - e magari dal reshoring. Sono svariati i casi di aziende che vorrebbero riportare in patria le lavorazion­i a più alto valore perché qui, tutto sommato, si trovano i tecnici migliori e il manufactur­ing più avanzato ma per avere speranza di successo occorre presentars­i come un Paese aperto.

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Lo stabilimen­to di Figline (Firenze)

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