Semplicità e sangue africano così il Vecchio Continente detta legge nel Mondiale
Sembra sempre un’ingiustizia quando esce il Brasile, un po’ è stato così anche stavolta, molti i tiri sbagliati, i gol persi per un respiro. Ma c’è sempre stato qualcosa di resistibile anche in questa squadra divisa tra artisti e impiegati, un Brasile più equilibrato e tattico ma dalla somma tecnica modesta per le sue latitudini. Neymar non è Ronaldo e non è Messi, ha mosse e fisico diversi, forse anche un cuore più leggero. Coutinho come campione è rimasto a metà strada, lo stesso Douglas Costa sembra più ordinario nel Brasile. Anche Marcelo in Nazionale tiene la palla cinque volte di più delle sue abitudini europee. È stato come se i brasiliani avessero voluto giocare a modo loro in questo Mondiale per prendersi la grande rivincita su quei secchioni dei compagni europei. Tutti hanno cercato un calcio ballato, ma non ne sono stati all’altezza. Ha vinto la vecchia semplicità europea, il saper essere tutti vicini all’uguaglianza, tutti secondo ordine e intelligenza. Così adesso non ci sono più squadre sudamericane, né di un altro continente. In semifinale andranno quattro europee, più un sacco di giocatori africani sparsi mutuati dal destino. È la conferma di un
calcio disciplinato, stanco di cercare novità, ma anche la conferma che ormai si gioca secondo regole umane. L’arte è nel complesso, non più nel numero. Hazard è forse oggi il miglior numero 10 al mondo, ma ha battuto il Brasile combattendo come un mediano di Nereo Rocco. Stessa cosa ha fatto Dele Alli con la Colombia. L’europa degli anni 20 non ha i giocatori migliori per forza, ma ha quelli più completi. In fondo a un torneo è questa chiusura della circonferenza che conta. Dovremo abituarci, la crisi di Brasile e Argentina è quella di tutto il nostro continente creativo. Abbiamo vissuto decenni con la meglio gioventù latina. Ma essendo in fondo dei buoni, vecchi imperialisti, abbiamo già sostituito i sudamericani con gli africani traendone perfino un vantaggio: abbiamo potuto nazionalizzarli, renderli uno di noi. È questo che sta profondamente cambiando il calcio, un modo diverso di essere la stessa nazione. Ci abbiamo messo 50 anni, ora il peso della realtà sta rovesciando tutto. La mescolanza di razze altrui è diventata la nostra. E ancora una volta vince chi può gestirla meglio, i francesi, i belgi, gli inglesi. Torna a casa anche Tabarez. Vedere i giocatori sedersi accanto a lui durante il gioco per potergli parlare era come tornare a un calcio da ragazzi, un colpo al pallone, poi tutti a servire Messa. L’uruguay è stato forse l’ultimo messaggio umano del calcio universale. Era normale perdesse con dignità. Si affronteranno adesso in semifinale Francia e Belgio, credo sarà la vera finale, con Croazia e Inghilterra nella scia. Il cambiamento è palese, il calcio ci è sfuggito di mano. Era anche ora lo facesse.