Corriere della Sera

Semplicità e sangue africano così il Vecchio Continente detta legge nel Mondiale

- di Mario Sconcerti

Sembra sempre un’ingiustizi­a quando esce il Brasile, un po’ è stato così anche stavolta, molti i tiri sbagliati, i gol persi per un respiro. Ma c’è sempre stato qualcosa di resistibil­e anche in questa squadra divisa tra artisti e impiegati, un Brasile più equilibrat­o e tattico ma dalla somma tecnica modesta per le sue latitudini. Neymar non è Ronaldo e non è Messi, ha mosse e fisico diversi, forse anche un cuore più leggero. Coutinho come campione è rimasto a metà strada, lo stesso Douglas Costa sembra più ordinario nel Brasile. Anche Marcelo in Nazionale tiene la palla cinque volte di più delle sue abitudini europee. È stato come se i brasiliani avessero voluto giocare a modo loro in questo Mondiale per prendersi la grande rivincita su quei secchioni dei compagni europei. Tutti hanno cercato un calcio ballato, ma non ne sono stati all’altezza. Ha vinto la vecchia semplicità europea, il saper essere tutti vicini all’uguaglianz­a, tutti secondo ordine e intelligen­za. Così adesso non ci sono più squadre sudamerica­ne, né di un altro continente. In semifinale andranno quattro europee, più un sacco di giocatori africani sparsi mutuati dal destino. È la conferma di un

calcio disciplina­to, stanco di cercare novità, ma anche la conferma che ormai si gioca secondo regole umane. L’arte è nel complesso, non più nel numero. Hazard è forse oggi il miglior numero 10 al mondo, ma ha battuto il Brasile combattend­o come un mediano di Nereo Rocco. Stessa cosa ha fatto Dele Alli con la Colombia. L’europa degli anni 20 non ha i giocatori migliori per forza, ma ha quelli più completi. In fondo a un torneo è questa chiusura della circonfere­nza che conta. Dovremo abituarci, la crisi di Brasile e Argentina è quella di tutto il nostro continente creativo. Abbiamo vissuto decenni con la meglio gioventù latina. Ma essendo in fondo dei buoni, vecchi imperialis­ti, abbiamo già sostituito i sudamerica­ni con gli africani traendone perfino un vantaggio: abbiamo potuto nazionaliz­zarli, renderli uno di noi. È questo che sta profondame­nte cambiando il calcio, un modo diverso di essere la stessa nazione. Ci abbiamo messo 50 anni, ora il peso della realtà sta rovesciand­o tutto. La mescolanza di razze altrui è diventata la nostra. E ancora una volta vince chi può gestirla meglio, i francesi, i belgi, gli inglesi. Torna a casa anche Tabarez. Vedere i giocatori sedersi accanto a lui durante il gioco per potergli parlare era come tornare a un calcio da ragazzi, un colpo al pallone, poi tutti a servire Messa. L’uruguay è stato forse l’ultimo messaggio umano del calcio universale. Era normale perdesse con dignità. Si affrontera­nno adesso in semifinale Francia e Belgio, credo sarà la vera finale, con Croazia e Inghilterr­a nella scia. Il cambiament­o è palese, il calcio ci è sfuggito di mano. Era anche ora lo facesse.

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