«Cara mamma, uscirò» Le lettere dalla grotta
Emergono contrasti e mezze verità nella Thailandia dei militari. Si temono infezioni per i ragazzi
U n’orchidea, una campanella di ferro, due statuette dorate. «Apri la tua bocca e libera questi figli…». La coppia di monaci sale il sentiero ogni mattina all’alba, fino all’imbocco della grotta. Sono uno magro e l’altro tondo, i poliziotti li conoscono e non chiedono il pass. I bonzi appaiano le ciabatte, contemplano le viscere di Tham Luang, siedono a fior di loto, offrono i doni. E alla fine invocano la montagna: «Non trattenerli più, lasciali andare…». Non c’è tempo per spegnere i generatori, fermare le pompe idrovore, stoppare i sub che vanno e vengono. Ma chi è intorno, ascolta in silenzio. Qualche parente dei ragazzi piange, s’inchina, ringrazia. Ognuno ha in gola una promessa da mantenere: la zia di Bew che non pronuncerà una sola parola, finché il suo nipotino non sarà fuori, o il papà di Dom che gli ha comprato un pallone («è capace di palleggiare anche trecento volte di seguito»). E poi c’è Titano, il più piccolo della squadra, 11 anni, che ha un nome più lungo di lui (Chanin Wiboonrungrueng) e lo chiamano così perché è sottile e minuscolo: i nonni hanno pronta la bici, il suo desiderio più grande. Sempre che la grotta apra la bocca. E lo vomiti fuori, assieme all’angoscia.
Fuori, è tutto pronto. Dopo i monaci, tocca ai medici e comincia l’esercitazione: come soccorrere i ragazzini, appena saranno salvi, e portarli in 25 minuti all’ospedale di Chiang Rai, settanta chilometri da qui. «Per ognuno di loro s’è preparata una squadra speciale – dice il generale Pramote Imwattana -: un dottore, tre infermieri, un’ambulanza e un elicottero». Non si può sbagliare. Perché il mondo guarda. E se là sotto il problema è l’acqua da attraversare, quassù sarà quel che ha attraversato l’acqua: dalla leptospirosi all’istoplasmosi, dai topi ai funghi, dai problemi respiratori all’ipotermia, «la sporcizia è inimmaginabile» e il pericolo d’infezioni molto alto. La malattia della grotta, soprattutto: «In tutti questi giorni, i ragazzi possono averla presa dai pipistrelli come dagli escrementi degli uccelli: va curata subito, prima che si diffonda sul corpo e diventi mortale», prima di quello stress post-traumatico e di tutti quei problemi agli occhi, ai denti, ai polmoni e al sonno che otto anni fa colpirono anche i minatori cileni, una volta usciti all’aria.
Dentro la grotta, no, nulla è pronto. La macchina dei soccorsi s’è ingolfata. E ora che sta cominciando a diluviare davvero, mostra mille problemi. Dovevano raggiungere i sepolti vivi con un tubo dell’ossigeno? In sei giorni, comunica adesso il governatore di Chiang Rai, «non ce l’abbiamo ancora fatta». Dicevano di sapere dove stessero? «In realtà, non abbiamo ancora capito quale sia la loro esatta posizione, non abbiamo la strumentazione necessaria: pensiamo siano a 600 metri di profondità, ma non ne siamo sicuri». Garantivano che tutte le vie sulla montagna erano state esplorate? «Ci sono ancora un centinaio di cunicoli, e diciotto potrebbero essere delle aperture possibili». C’era il limite invalicabile del fine settimana, sotto pressione delle previsioni meteo? «Potremmo darci una finestra di altri tre o quattro giorni». L’immersione di salvataggio dei Navy Seals viene rinviata di ora in ora: finché la grotta non comincia ad allagarsi per la pioggia, è l’idea, meglio aspirare con le pompe più acqua possibile e dare ai soccorsi una sicurezza maggiore. Nessuno vuole metterci la faccia, la giunta militare tace e il ministro dell’interno lascia volentieri la responsabilità a questo signor Narongsak Osatanakorn, governatore locale scaduto e già destinato dopo quest’emergenza ad amministrare una piccola provincia lontana. Qualche domanda rimane: perché sono stati rispediti a casa gli speleologi inglesi che hanno trovato i ragazzi vivi, i soli capaci di muoversi davvero nel labirinto di Tham Luang? E
L’ossigeno
Il governatore ha ammesso che il tubo dell’ossigeno non è ancora nella grotta
come mai il governo non ha chiesto l’aiuto delle protezioni civili europee e nordamericane, più attrezzate per emergenze del genere, invece d’affidarsi agli amici cinesi e a qualche organizzazione di volontari? C’entra l’orgoglio dell’unico popolo di questa parte di mondo che non è mai stato colonia, a un anno dal voto e dalle celebrazioni per il settantennale del nome nazionale. Ma c’è anche la rigidità d’un Paese da quattro anni sotto golpe, dove basta una critica di troppo a finire in galera e solo qualche vignettista di Bangkok, il velenoso Stephff, si permette di disegnare la Thailandia come una ragazzina pure lei prigioniera della grotta, davanti ai sommozzatori che emergono per dirle: «Tu aspetta, non è ancora tempo di salvarti».
Non se ne esce, si aspetta. Il campo dei soccorsi sta diventando un circo per i media, buono per la propaganda, con surreali ministri del Turismo che vengono a decantare la bellezze delle grotte e improbabili cloni locali di Elon Musk che si presentano coi loro piani di salvataggio alternativi. La macchina, la fanno funzionare i soldati che hanno rinunciato alle loro licenze per badilare e i medici ai loro turni di riposo per assistere e migliaia di thailandesi alle loro ferie per dare una mano. Coi contadini qui intorno, che hanno accettato di perdere il raccolto, di lasciarsi inondare dai milioni di metri cubi d’acqua estratta dalla grotta. Pairoj Jan-in ha buttato migliaia di dollari. «Ho dei figli che hanno l’età di quei ragazzini», dice, e il denaro non è tutto: «Il riso può crescere sempre, le loro vite no».