Corriere della Sera

I sogni e la realtà degli italiani che vanno via

Il sondaggio Parla l’esercito silenzioso dei nostri emigrati intellettu­ali: non sono figli di papà, lasciano le regioni più ricche e non inseguono i soldi

- di Federico Fubini

Afronte di un flusso di sbarchi dal Nord Africa in Italia di circa 30 mila persone l’anno, gli italiani che lasciano il proprio Paese ogni anno sono quasi quattro volte più numerosi secondo i dati dell’istat. Questi italiani ancora oggi hanno per quasi due terzi (63%) meno di 40 anni. E in nove casi su dieci si sono laureati in Italia.

Si parla tanto in Italia di coloro che arrivano da dimenticar­si gli altri: quelli che vanno. Gli emigrati italiani non approdano in altri Paesi senza documenti e non chiedono asilo, ma lavoro, e a volte una carriera agli snodi più avanzati dell’economia della conoscenza. A migliaia fra loro sono fra i più qualificat­i e competitiv­i nei maggiori centri di ricerca del mondo. A fronte di un flusso di sbarchi dal Nord Africa in Italia di circa 30 mila persone l’anno, gli italiani che lasciano il proprio Paese ogni anno sono quasi quattro volte più numerosi secondo i dati dell’istat. In realtà, senz’altro molti di più: le statistich­e ufficiali italiane a volte non li vedono emigrare, perché chi parte spesso non si cancella subito dal comune originario di residenza. Sono i rendiconti delle autorità di alcuni Paesi di destinazio­ne — Germania, Gran Bretagna, Svizzera o Spagna — che rappresent­ano meglio ciò che accade, perché gli italiano devono iscriversi subito: i numeri fra doppi e quadrupli di quelli registrati in Italia. Questi emigranti potrebbero essere ogni anno quasi dieci volte più numerosi di coloro che sbarcano, benché la politica — oggi come ieri — si occupi di loro cento volte di meno.

Questa diaspora contempora­nea resta in parte sconosciut­a nelle proprie motivazion­i. Forse il ceto più inascoltat­o fra i nati in Italia. Per questo il Corriere ha deciso di dare parola a questi connaziona­li, a molti dei più qualificat­i fra loro. Con l’aiuto delle associazio­ni di ricercator­i italiani in Gran Bretagna (Aisuk), in Nord America (Issnaf), Francia (Récif), Cina ( Aaiic), Sudafrica (Nirc e Nirnep), Norvegia e Islanda (Comites Oslo) e di un’ulteriore rete transnazio­nale (Airicerca) che raccoglie adesioni anche in Germania e Svizzera, abbiamo lanciato un sondaggio fra i lavoratori italiani della conoscenza nel mondo. Ne abbiamo raggiunte molte migliaia, hanno risposto in poco più 750. Abbastanza per farsi un’idea delle loro età oggi e quando sono partiti, dei loro percorsi personali e delle loro radici sociali e familiari, delle loro riflession­i al momento di lasciare l’italia, dei pensieri che li attraversa­no all’idea di tornare e del modo in cui vedono il loro Paese di origine. Decine

 Tre su quattro pensano che l’italia vada nella direzione sbagliata

di loro, dopo aver compilato il sondaggio ci hanno scritto lettere sempre intelligen­ti e profonde a volte toccanti (le riportiamo su corriere.it, insieme ai risultati integrali del sondaggio).

Ne esce un quadro di orgoglio personale e nazionale, frustrazio­ne, puntiglio, passione per il lavoro fatto bene più che sempliceme­nte per la propria carriera o il denaro che ne deriva. Un universo di italiani scettici o critici sullo stato e il senso di marcia del loro Paese natale, quasi sempre consapevol­i del valore difficilme­nte superabile dei talenti che continua a esprimere.

Questi italiani ancora oggi hanno per quasi due terzi (63%) meno di 40 anni. Benché in nove casi su dieci si siano laureati in Italia e in quasi otto su dieci in Italia abbiano conseguito in Italia anche il primo titolo post-laurea, non hanno aspettato a lungo. «Non ci siamo messi in fila» dice Elena Orlando, un’astrofisic­a di Stanford. Si sono mossi presto. Otto su dieci stavano già svolgendo attività di ricerca remunerata all’estero entro i trent’anni di età. Colpisce come quasi metà delle risposte al sondaggio

del Corriere sia arrivato da ricercatri­ci, senz’altro una quota più alta rispetto al 30% circa di personale femminile attivo in questo settore in Italia e quasi ovunque in Europa. Una di loro, Paola Malerba dell’università di California Irvine, ha esplicitam­ente indicato «l’endemico, eterno e devastante maschilism­o» come ragione per aver rinunciato a una carriera in Italia.

Rivela qualcosa delle fratture territoria­li del loro Paese di origine, in base alle nostre 750 risposte, l’origine regionale di questa diaspora intellettu­ale. Vi risultano decisament­e sovra-rappresent­ate, rispetto al peso demografic­o relativo sulla popolazion­e italiana, regioni ricche e dinamiche come la Lombardia, il Veneto o la vasta conurbazio­ne di Roma; esprimono invece meno ricercator­i all’estero, in proporzion­e al loro peso demografic­o nel Paese, alcune delle regioni più povere di lavoro e sviluppo educativo: Campania, Calabria e Sicilia.

Questi emigrati colti sono spesso figli di una borghesia piuttosto istruita: quasi un terzo dei loro genitori ha una laurea, oltre il doppio rispetto alle medie nazionali per le generazion­i nate fra anni '30 e gli anni ’50. Eppure i loro discendent­i sono tutto, meno che figli di papà. Gli italiani della diaspora non restano fermi nel solco socio-profession­ale nel quale hanno avuto la ventura di nascere. In nove casi su dieci non svolgono mestieri simili a quelli delle madri o dei padri. Non usano l’agenda del telefono di questi ultimi per portarsi avanti nella vita.

Lo si capisce del resto dalle motivazion­i che offrono per spiegare la scelta di vita dell’emigrazion­e. La voglia di accelerare la carriera o di guadagnare di più non figura fra le prime tre ragioni. Le due indicate più spesso, in metà delle risposte, rivelano molta più attenzione e ambizione per un’elevata qualità della ricerca e dei colleghi: «La qualità complessiv­a del lavoro era migliore nel luogo, fuori dall’italia, che ho scelto» e «Le mie opportunit­à in Italia erano limitate da un ambiente inquinato da clientelis­mo, familismo o corruzione». Dice Silvia Macchione, una 28enne calabrese dottoranda in neuroscien­ze all’inserm di Lione: «Nel momento esatto in cui ho messo piede qui dentro ho capito che non me ne sarei andata facilmente. I laboratori stranieri sono dei veri maestri nel pescare nel nostro bacino di conoscenze, le quali — ahimè — andranno a fare grande la ricerca di altri Paesi». Andrea L’afflitto, un ingegnere aerospazia­le dell’università dell’oklahoma, premette che deve «tantissimo ai miei insegnanti delle scuole elementari, medie e superiori», ma sottolinea la differenza: «Qui la competizio­ne è a dir poco brutale, ma se si è in gamba si emerge senza tener conto dell’età e del rango accademico».

Non stupisce dunque che questi emigranti intellettu­ali non abbiano molte speranze o voglia di rientrare, per le stesse ragioni che hanno innescato l’uscita dal Paese: diffidenza verso il clientelis­mo, scetticism­o all’idea di poter lavorare bene. Dice Primavera Spagnolo del National Institute of Health di Bethesda (Maryland): «Tornerei? Assolutame­nte sì. L’italia regala una bellezza quasi sfacciata, perché si impone agli occhi nonostante i continui sfregi. Del mio Paese mi mancano anche i diritti acquisiti e il welfare, ma ho il terrore che rientrare equivalga a buttare via tutto ciò che ho acquisito». Pochi di loro si fanno illusioni sull’idea che esista una sistemazio­ne ideale. L’afflitto, dall’oklahoma, scrive di una sua precedente esperienza di lavoro: «Ricordo ancora con una punta di dolore l’atteggiame­nto sostanzial­mente razzista di molte persone in Germania». Aggiunge Alessandro Angerilli della Ludwig Maximilian Universitä­t di Monaco: «Il familismo, il clientelis­mo, la corruzione morale e le raccomanda­zioni esistono anche in Germania. Però parlarne è un tabù e l’eccesso di soldi nella ricerca rende tutti felici».

Nessuna amarezza all’estero cambia il giudizio di questi ricercator­i sul loro Paese di origine, benché tutti sottolinei­no di trovare sempre gli italiani fra i più bravi in giro per il mondo. Il 47% di loro giudica «negativa» o «molto negativa» la situazione dell’italia e un altro 40% la trova «mediocre». E tre su quattro fra questi migranti della conoscenza concludono: l’italia sta andando «nella direzione sbagliata».

Ogni anno gli emigrati sono 4 volte i profughi in arrivo da noi

Il nostro Paese non sta andando da nessuna parte. In Nord Carolina invece gli ospedali hanno già comprato nuovi apparecchi perché ci si attende un aumento di popolazion­e

stupirebbe riscontrar­e un ampio desiderio di tornare in Italia. Meglio stare all’estero e mantenere sempre scambi tra i mille mondi che ci definiscon­o

Un ateneo italiano mi ha proposto di rientrare, offrendo al massimo un posto di professore associato. Ma io in agosto prendo servizio come ordinario nel Regno Unito

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