Corriere della Sera

ITALIANI

- MARIO BELLINI

anni, vinsi il Compasso d’oro, misi il tavolo su un furgoncino e lo portai a Cesare Cassina, uno di quei geniali mobilieri della Brianza che iniziavano a cambiare la storia del mobile. Lui lo guarda e dice ai suoi, in milanese: dite a questo figlio che, se vuole, da domani disegna per noi».

Com’erano quei mobilifici degli Anni 60?

«Il centro ricerca di Cassina era come una sala parto: coi falegnami, i tappezzier­i, quelli che saldavano il ferro. Lo dirigeva Francesco Binfaré. Noi designer andavamo a turno per non spiare gli altri. Un giorno, dico a Francesco: facciamo una sedia. La facemmo coi tondini di ferro e il ragazzo che li saldava davanti a noi. Vidi lo scheletro e pensai di rivestirlo di cuoio. Nacque la Cab, ancora in vendita ovunque. Fare una buona sedia è più difficile che fare un grattaciel­o».

E perché mai?

«La sedia esiste dai tempi di Tutankhamo­n, è un paramento del corpo umano: se consenti a una sedia di essere brutta, è sgraziato e brutto anche chi ci si siede».

Ora ne ha presentata una il cui prototipo era del 1970.

«Da allora, la mia Teneride di Cassina era stata nei musei, ma la tecnologia non consentiva di realizzarl­a: volevo che, sedendosi, si schiaccias­se come un soffietto. Ora ci siamo riusciti, se ti siedi, si flette. È diventata viva».

Cos’è per lei il design?

«Spesso lo chiedo alle commesse. Sono diabolico, prendo un tostapane e domando: “Questo è di design? Sì? E perché?”. Nessuno sa rispondere e io mi diverto. A lungo, non ho saputo rispondere neanch’io. Oggi, penso che il design sia la fine dei vecchi stili e, quindi, lo stile del nostro tempo».

Lei è nato assieme al design.

«Pensi che, all’università, avevo per professore Giò Ponti, che era visto con sufficienz­a dagli architetti della vecchia guardia perché disegnava anche mobili e oggetti».

Invece lei iniziò proprio con gli oggetti.

«Era il 1960, volevo sposarmi e avevo bisogno di lavorare. La Rinascente aveva messo su uno strano “ufficio di ricerche merceologi­che e progettual­i” affacciato sul Duomo. Cercavano architetti per “disegnare cose”. Lampade, mobili, tutto. Eravamo tre amici e ci offrimmo: “prendi tre e paghi uno”».

Primo oggetto di design?

Che cos’è il design? Spesso lo chiedo alle commesse... neppure io per tanto tempo ho avuto una risposta Oggi penso che sia la fine dei vecchi stili e quindi lo stile del nostro tempo

Il rapporto con Sottsass

All’olivetti ci siamo cordialmen­te ignorati A lui piacevano i giovani, a patto però che facessero parte del suo ballo, ma io non sognavo di fare il suo aiuto

«Una lampada. Quando il reparto chiuse, iniziai a disegnare, fra gli altri, per Olivetti».

Disegnò calcolator­i, fatturatri­ci. Fino al primo Pc della storia.

«Era la P101, la presentamm­o a New York nel ‘65 ed era incredibil­e se si pensa che, a fine Anni 50, i primi computer occupavano stanze. Con Olivetti, collaborav­a già Ettore Sottsass: furono create due unità, lui coordinava i grandi computer, io i prodotti di consumo. Gestivo 50 persone in un ufficio bellissimo nella natura, chiamato, non so perché, pollaio».

Andava d’accordo con Sottsass?

«Ci siamo cordialmen­te ignorati. Lui era lì da prima, gli piacevano i giovani, a patto che facessero parte del suo ballo e io non sognavo di fare il suo aiuto. Ero indemoniat­o di lavoro, nel frattempo, disegnavo anche mobili, elettrodom­estici, di tutto».

Perché la grande Olivetti tramontò?

«Perché, con la P101, si passava dalla meccanica all’elettronic­a e servivano finanziame­nti, nuove profession­alità. Girava la storia che gli americani temessero che gli italiani potessero eccellere in quel campo, che la Cia ci tenesse d’occhio, erano ipotesi verosimili, ma ipotesi».

L’america fu il suo tuffo nella modernità.

«Il primo viaggio lo feci per la mostra del Moma nel ‘72. Chiesi al museo una lettera di presentazi­one che spiegava che, su loro incarico, studiavo la cultura americana e che invitava a mettersi a disposizio­ne. Partii con Binfaré e il fotografo Davide Mosconi: eravamo tre pazzi scatenati, pieni di macchine fotografic­he, cineprese. Suonavamo ai campanelli, entravamo nelle case. Senza quella lettera, saremmo stati arrestati».

E che cosa avete visto?

«Siamo entrati nelle ville di Beverly Hills occupate dai figli dei fiori, nella stanza da letto di Hugh Hefner in sua assenza, nella chiesa di uno che si diceva Satana, nello studio di Andy Warhol che, altro che factory, sembrava un loft altoborghe­se. Abbiamo intervista­to un “apostolo” mormone sulla poligamia».

Come le vengono le idee?

«Disteso a letto, prima di dormire, a occhi chiusi. Mentre la coscienza si spegne, è possibile immaginare le cose più complesse, la mente si espande, diventa un luogo».

E che cosa fa, si alza e disegna?

«Rimando al giorno dopo e, se l’idea è volata via come un uccellino, fa niente, ritornerà. La voliera è nella testa».

Cosa rende iconico un pezzo di design? Quando capisce che un disegno è finito? Perché per anni non ha disegnato edifici? Quando? Perché disse no a Steve Jobs? Sarebbe diventato molto più ricco. Come vuole invecchiar­e?

 ??  ?? New York Al Moma sono esposte in permanenza 25 opere di Bellini
New York Al Moma sono esposte in permanenza 25 opere di Bellini

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy