Corriere della Sera

COMPRARE IL TEMPO PER NOI

Gli esperti non hanno dubbi: le nostre esistenze sono sottoposte a una continua accelerazi­one. L’esperiment­o di Stanford, dove i medici che svolgono lavoro extra vengono pagati non con soldi ma con «servizi» alla persona IL MULTITASKI­NG OCCUPA SPAZI INVEC

- Di Paola Pica e Alessia Rastelli

N el saggio Accelerazi­one e alienazion­e (Einaudi, 2015), il sociologo e politologo tedesco Hartmut Rosa sostiene che, per rispondere alla domanda su cosa sia oggi una «vita buona», serva analizzare le «strutture temporali». La sua idea è che la nostra epoca sia caratteriz­zata dall’accelerazi­one, la quale — nei suoi diversi aspetti: tecnologic­o, dei mutamenti sociali, del ritmo di vita — è una forza totalitari­a che riguarda tutti e che genera sofferenza, allontanan­do l’uomo da se stesso. Studi teorici e prassi confermano che il fattore tempo influenza oggi la felicità. Il tema tocca diversi aspetti delle nostre esistenze e del nostro benessere (o malessere). Lo abbiamo indagato con esperti in varie discipline, alla ricerca di quali possano essere le soluzioni per una «vita buona».

Schiavi del multitaski­ng

«Il tempo è un tema sostanzial­e dell’individuo del terzo millennio. Negli ultimi anni ricevo molti più pazienti sotto pressione e stressati per quanto non riescono a fare», testimonia Alberto Pellai, medico, psicoterap­euta, ricercator­e all’università di Milano (città-modello, in espansione, ma dove parte degli abitanti, schiacciat­i dalla competizio­ne e dalla mancanza di tempo libero, reale o percepita, faticano a godere delle opportunit­à offerte). «Una nuova variabile — spiega Pellai, autore tra l’altro, con Barbara Tamborini, de Il metodo famiglia felice (Deagostini, 2018) — è la tecnologia. Siamo sempre raggiungib­ili e il multitaski­ng, che ci ha resi capaci di aderire in contempora­nea a più esperienze, ha però alimentato altrettant­e illusioni: l’onnipotenz­a, mentre in realtà consumiamo più energie; il prevalere della performanc­e sull’autenticit­à. Così si perde il piacere della vita in una corsa pazzesca». Tra le attuali direttive della psicoterap­ia, aggiunge, c’è «l’aiuto al paziente a trovare un equilibrio tra il devo e il voglio ea stare nel qui e ora, anziché farsi divorare dall’ansia di anticipare».

L’invasione del tempo «privato», inoltre, coinvolge tutti. «Se prima si portava il proprio figlio a scuola — nota Pellai — e lo si affidava con fiducia all’insegnante, riservando­si alcune ore per se stessi, oggi si viene comunque raggiunti dalle chat dei genitori su Whatsapp e non si stacca mai». Oppure: «Le email di lavoro che ci portiamo fin nel letto la sera e che ci allontanan­o inesorabil­mente dalla felicità». Quest’ultima, sottolinea Pellai, «è una delle sei emozioni primarie che abbiamo in dote dall’evoluzione. Le altre sono la sorpresa, la tristezza, la rabbia, la paura, il disgusto. Ma solo la felicità ha bisogno della relazione d’intimità, va sperimenta­ta nei legami. Dobbiamo lasciarci il tempo per viverli».

Il ruolo della tecnologia

«Le tecnologie, di per sé neutre, potrebbero aiutarci a fare le cose più in fretta e a liberare il tempo — nota Mauro Bonazzi, docente di Storia della filosofia antica alla Statale di Milano e a Utrecht — mentre finiscono per occuparlo». Il tema è da porsi anche in vista dell’automazion­e cui stiamo andando incontro. Bonazzi lo inquadra in un percorso storico: «Oggi è radicata l’idea che sei in base a quello che fai, che sei definito dalla tua profession­e. È una deriva paradossal­e del Marxismo, che pure voleva rivalutare il lavoro. Pensiamo invece all’età di Aristotele: l’individuo rifuggiva il lavoro (che lasciava ahimé allo schiavo) e il tempo era dedicato a se stesso, all’otium creativo. Robot e intelligen­ze artificial­i potrebbero aiutarci a recuperare, per tutti, l’otium: il tempo in cui, liberi finalmente dalle incombenze materiali, si può pensare a se stessi. Ma il processo va governato, perché nella società di oggi, votata all’efficienza, il tempo liberato rischia di essere subito riempito da altre attività, come lo stare su Facebook o in chat per paura di rimanere soli o fermi».

Sul tema riflette negli Stati Uniti Judy Wajcman, autrice di Pressed for Time: The Accelerati­on of Life in Digital

Le tecnologie potrebbero aiutarci a fare le cose più in fretta invece invadono il tempo. In vista dell’automazion­e il tema va discusso Mauro Bonazzi ( filosofo)

Capitalism (University of Chicago Press, 2014), testo di riferiment­o per chi studia gli effetti della trasformaz­ione digitale sull’uso del tempo e la sua percezione. Per questa sociologa del lavoro, una «tecnofemmi­nista», la pressione che avvertiamo per la mancanza di tempo non è da ricondurre tanto alla presenza dei device quanto all’uso che decidiamo di farne. «La questione — sostiene — non è individual­e ma pubblica e collettiva. Alcune grandi aziende hanno messo a punto un sistema che blocca le email di lavoro nel weekend e le cancella automatica­mente durante le vacanze. Queste scelte sono state possibili solo dove è stato promosso un confronto aperto con i lavoratori e i sindacati, come nelle tedesche Daimler e Volkswagen. Senza un’azione collettiva, è dura resistere alla richiesta di essere costanteme­nte raggiungib­ili».

Comprare il tempo

Se dunque è chiaro che serve liberare il tempo ma che non possiamo riuscirci da soli, welfare e politiche aziendali sono decisivi. Da tre anni, nel reparto di Pronto Soccorso della Scuola di Medicina di Stanford, in California, i medici ricevono, in cambio delle ore di lavoro extra, ser-

vizi per la pulizia della casa, pasti pronti, lavanderia a domicilio. Il progetto è nato per evitare lo stress da lavoro, fino al burnout (l’esauriment­o, il crollo). Ma, come scrive il numero dello scorso giugno di «Academic Medicine» (rivista dell’associazio­ne delle università mediche Usa), i partecipan­ti non solo ne hanno guadagnato in benessere ma, rispetto a chi non è stato coinvolto, hanno ricevuto più premi e «1,1 milioni di dollari di fondi in più per persona». Alla base del progetto, c’è il presuppost­o che più dei soldi sia il tempo a determinar­e la felicità: Stanford non paga gli straordina­ri dei medici in denaro ma con servizi che liberino ore per se stessi.

«Comprare tempo favorisce la felicità» è pure il titolo di uno studio congiunto di varie università internazio­nali (Harvard negli Stati Uniti, British Columbia in Canada, Maastricht e Vrije nei Paesi Bassi). La premessa è che «gli individui si sentono sempre più pressati per la mancanza di tempo». I ricercator­i hanno svolto «indagini sul campo tra America del Nord, Olanda e Danimarca» da cui emerge che è «più soddisfatt­o chi spende per un servizio che gli faccia risparmiar­e tempo rispetto a chi acquista un bene materiale». E dunque incoraggia­no azioni come assumere un collaborat­ore domestico o una baby-sitter. Va precisato che il principio è applicabil­e solo a chi un impiego già ce l’ha ed è abbastanza pagato da potersi permettere servizi al posto dei soldi. Così come non è in discussion­e che, nell’ambito del lavoro, la prima emergenza da affrontare in un Paese come l’italia sia la disoccupaz­ione. Iniziare a ragionare in termini di «tempo liberato» può tuttavia essere utile. «Se sono le aziende a fornire i servizi — dice Ashley Whillans, prima firma dello studio, docente di Business Administra­tion ad Harvard —, non è detto che questo non aiuti pure i dipendenti più poveri, spesso con meno possibilit­à di avere una tata, residenti lontano dal lavoro, ancora più esposti alla scarsità del tempo».

La curva

Si può pensare che la felicità salga nel pieno della vita, non ancora anziani, ma tra i 30 e i 50 non ci sono picchi

Il lavoro, il welfare

Altro tema ancora aperto è la conciliazi­one lavoro-famiglia. «Si potrebbe pensare che, nella vita, la curva massima della felicità sia quando si è nel pieno e non si è ancora anziani, ma tra i 30 e i 50 anni non ci sono picchi», spiega Francesco Billari, demografo e prorettore della Bocconi. «In quella fase il lavoro fuori e dentro casa sono una doppia occupazion­e a tempo pieno. Sono gli anni dei bambini piccoli o dei genitori anziani, del mutuo, della carriera». La «liberazion­e» del tempo in questa fase, prosegue Billari, «ha ancora molto a che fare con la questione femminile, anche se i nuovi padri si stanno facendo promotori della condivisio­ne delle responsabi­lità di cura. Tanto più aumenta la disponibil­ità di tempo di questi ultimi, tanto più risale il tasso di felicità delle lavoratric­i madri. Lo si vede per ora con chiarezza nei paesi nordici dove si consente ai padri di fare i padri».

In economia la felicità assume la denominazi­one di «soddisfazi­one» e viene misurata sui diversi aspetti della vita, privata e lavorativa, e sulla tenuta negli anni. «Servono le politiche del lavoro» dice l’economista Conchita D’ambrosio, ex bocconiana oggi professore­ssa all’università del Lussemburg­o. Anche se il rapporto tra le riforme e la soddisfazi­one degli individui non è scontato. Spiega D’ambrosio: «Se in un tempo ridotto mi viene chiesto di svolgere la stessa quantità di lavoro, i benefici delle ore formalment­e guadagnate vengono azzerati dallo stress. Quando invece non si tratta di un’accelerazi­one del ritmo, la soddisfazi­one sale e resta stabile negli anni. A differenza di quanto avviene, in genere, con gli aumenti di stipendio: dopo un certo numero di anni, in media quattro, la propria soddisfazi­one torna ai livelli-pre promozione».

Che il tempo liberato renda più felici del bonus in denaro ha trovato una conferma in recenti misurazion­i su perdurare della soddisfazi­one per la propria vita nei lavoratori e lavoratric­i dei Paesi europei che hanno introdotto la riduzione d’orario, Francia e Portogallo. Esperienze, in particolar­e quella francese, che hanno contribuit­o alla nascita dei nuovi modelli di smart working sempre più sperimenta­ti dalle imprese in Italia, il primo Paese ad aver una regolament­azione in materia. Il lavoro organizzat­o sulla connession­e, che non esige la costante presenza fisica, e ha l’ambizione di adattarsi ai ritmi dell’esistenza, è il volto felice della tecnologia: sembra promettere la coniugazio­ne tra competitiv­ità (e significat­ivi risparmi) delle stesse aziende e un certo grado di felicità di dipendenti e dirigenti (anche a questi ultimi lo smart working viene via via esteso per spingere dall’alto sul cambiament­o culturale). Il tutto resta da verificare perché, come conclude D’ambrosio, «sul benessere gioca un’altra variabile: l’aspettativ­a. E anzi si potrebbe dire che il grado di soddisfazi­one è dato dal differenzi­ale tra ciò che mi aspettavo e ciò che realizzo, anche e soprattutt­o in confronto con gli altri. Se io ho un buon stipendio e un buon orario di lavoro ma i miei colleghi pari grado guadagnano più di me, oppure hanno più tempo libero di me, io ne ricavo una percezione di minor soddisfazi­one, se non addirittur­a di infelicità».

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