Corriere della Sera

NOBILTÀ DI MARMO

L’appuntamen­to Venezia ospita «Magister Canova», un percorso multimedia­le che, con riproduzio­ni delle opere e suoni originali, ci fa entrare nel mondo del grande scultore. Il quale fu tante cose: demiurgo e ambasciato­re della bellezza FINE SCULTORE E UOM

- Di Giovanni Montanaro

N acque a Possagno nel 1757; tra Asolo e i monti, si abituò alla purezza. Occhi da seduttore, carnagione bianca, veneta, Antonio Canova arrivò a Venezia a undici anni, preso a bottega. Sua madre se ne era andata col secondo marito, appena vedova. Lui era cresciuto col nonno, Pasino, confusiona­rio, stravagant­e. Era uno scalpellin­o, come anche suo padre. Vendette un campo per far lavorare il nipote solo mezza giornata; l’altra mezza, poteva studiare il nudo e gli antichi, alla collezione Farsetti. Non gli bastò, erano solo delle copie.

La Serenissim­a era vicina alla fine (1797), meraviglio­sa e incupita tra libertà e sporcizia, come è sempre stata. E poi era terra di architetti e pittori, non di scultori. Coi cento zecchini presi per Dedalo e Icaro, Canova partì per Roma. Si installò in via San Giacomo, cominciò il business. Col tempo, divenne ispettore generale delle Belle Arti, sovrintend­ente ai musei, delegato a ostacolare il trafugamen­to di opere.

Dipingeva male. Scolpiva come nessuno al mondo. Nel suo studio, stava notte e giorno in una stanza chiusa; attendeva il buio, la luce, per capire le sue statue. Vestiva una veste da camera, un cappello di carta, scalpello e martello. Non smetteva di lavorare, se parlava con qualcuno. Si faceva leggere poemi classici. Cominciava da un disegno, poi un bozzetto, poi una creta a grandezza naturale, e poi un gesso, riempito di chiodi per mantenere le misure. Il marmo veniva per ultimo. Gli allievi sbozzavano, lui finiva. Poi, ci applicava fuliggine, o acqua contaminat­a col ferro, quasi certamente cera rosata. Accendeva le statue; un battito, un’emozione. Figure ideali e, insieme, vicinissim­e. Il bacio ancora non dato, tra Amore e Psyche, era forse il suo personale tormento, di tanti amori infelici, finiti, da Laura di Possagno alle contesse e baronesse? Il cruccio di non saper danzare era quella danzatrice con le mani sui fianchi, ancora ferma? E le Tre Grazie non sono forse la giovane, meraviglio­sa Teresa Couty, insieme alle sue due cameriere, e tutto il desiderio impudico, l’ipotesi di un partouze? E Paolina Borghese? Canova le prende il calco del seno, il seno è suo, solo suo, quella coppa, quel capezzolo, ma poi Canova usa quello stesso calco per un’altra statua che non c’entra niente, la Venere che esce dal bagno. È così, per me, la sua produzione, sospesa tra realtà e menzogna, tra bellezza e desiderio.

Erede di Raffaello, non di Michelange­lo, non scovò mai l’imperfezio­ne che fa la vita. Stanò, invece, la perfezione che fa l’eternità. Anche lui, come Winckelman­n, non capì che le statue antiche erano state colorate, e solo sbiadite dal tempo; non capì che gli antichi erano più dei trapper che

Potere creatore Accendeva le statue; un’emozione, un battito. Figure ideali e, insieme, vicinissim­e

non dei Giorgio Armani. Fu la fortuna del neoclassic­ismo. La sua fortuna. Napoleone, però, rifiutò che gli aveva fatto; troppo idealizzat­o. I tempi erano cambiati. I giacobini avevano invaso lo studio di Canova. Gli era stata revocata la pensione della Serenissim­a. Napoleone lo chiamò. Canova titubò, il papa lo convinse a farsi mediatore, ambasciato­re. Canova gli rinfacciò le ruberie delle opere, o così si dice. Napoleone non fece niente. Quando Napoleone cadde, Canova fu ambasciato­re per riportare in Italia quante più opere possibili; in parte, ci riuscì. Finché Napoleone c’era, invece, fece copie delle statue antiche, per riparare la barbarie francese. A Firenze, rifece la Venere sottratta; era più bella la sua o quella antica? Viaggiò: Vienna, Bologna, Londra per periziare il Partenone. Morì nel 1722.

Si era rovinato lo stomaco, schiaccian­dosi sulla pancia il trapano, per realizzare le criniere dei leoni del monumento a Clemente XIII. Dopo la morte, fu fatto a pezzi. La sua mano rimase all’accademia di Belle Arti di Venezia, appena fondata. Il suo cuore fu messo ai Frari, nel monumento che aveva pensato per Tiziano e fu fatto a lui. Il corpo riposa a Possagno, nel Tempio che progettò e non fece in tempo a vedere. Erede di generazion­i di scalpellin­i, non ebbe figli. Suo erede fu un fratellast­ro vescovo, uomo svelto. Capì che doveva portar via i gessi, perché nessuno li copiasse, perché tutto finisse. Li imbarcò a Civitavecc­hia. Arrivarono a Possagno da Venezia, in carri. Sono ancora lì, nella Gipsoteca. A guardarli, pieni di chiodi, butterati, sospesi anche loro in una vita irreale, incompiuta, mi emozionano più delle statue finite.

© RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Il destino postumo Dopo la morte, fu fatto a pezzi. La sua mano rimase all’accademia di Belle Arti di Venezia

 ??  ?? Rabbia Ercole e Lica, Gesso, Gypsotheca e Museo Antonio Canova, Possagno (© Fabio Zonta)
Rabbia Ercole e Lica, Gesso, Gypsotheca e Museo Antonio Canova, Possagno (© Fabio Zonta)
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy