Negli occhi, Alfredino
Stanno finalmente uscendo dal buio. Escono a «riveder le stelle». Per alcuni di loro l’inferno è finito. Ora è difficile persino pensare a quei ragazzi, creature tra gli undici e i sedici anni, inghiottiti dalla terra nella lontana Thailandia.
È difficile immaginare il loro spavento, la loro solitudine, l’orrore delle giornate passate tra pipistrelli, topi e la paura che l’acqua, prodotta dai monsoni di imminente arrivo, possa farsi muro invalicabile. Un solo adulto, divorato dal senso di colpa per averli portati in trappola, deve confortare ogni istante la sua squadra di calcio in miniatura. Fuori è un cinematografo, manca solo la musica del finale di Otto e mezzo. Ministri del turismo che magnificano le grotte, governatori in cerca di notorietà, media affamati di scoop.
Conosciamo questa storia. Il nostro Paese l’ha vissuta un giorno di giugno del 1981 quando un bambino, Alfredo Rampi, precipitò in un buco della terra dalla quale non uscì vivo. Ho studiato e raccontato il dramma di quei giorni folli in cui il Paese si paralizzò davanti a quel pertugio in un giardino. Si paralizzò l’opinione pubblica, incollata febbrilmente e morbosamente davanti alla tv, giorno e notte. E si paralizzò il sistema di salvataggio che diede prova di incompetenza, improvvisazione, dilettantismo. Fuori dal buco in cui Alfredino gridava e soffriva si agglutinò un Circo Barnum di curiosi, di gente in cerca di interviste e di uno spiraglio di notorietà. Gli unici che la storia ci rimanda come eroi positivi sono i genitori di Alfredo, dolore e dignità, i vigili del fuoco e le persone semplici, come Angelo Licheri, che hanno rischiato la vita immergendosi in quell’antro per sfiorare la mano di Alfredo e riportarlo dove i bambini devono stare. Certe volte penso se, in quegli anni, fossero esistiti i social network come sono oggi: tribunale permanente, violento e pretenziosamente onnisciente. E mi fa paura. Paradosso della modernità, a Vermicino come in Thailandia, la rutilante macchina della modernità, capace di costruire cloni di persone e automobili senza volante, fatica a strappare dei bambini dalla terra matrigna che li trattiene. Natura e tecnologia sembrano costantemente sfidarsi in un braccio di ferro, come a dimostrare la propria imbattibilità.
Ma, in fondo ai tunnel umidi di pioggia, ci sono dei bambini soli.
Sì, so che loro per primi non amerebbero essere chiamati più bambini. Ma forse non c’è tempo più difficile e meraviglioso di quella età della vita. Quando non sei più tanto piccolo da non farti le grandi domande e non sei ancora tanto grande da aver trovato le risposte. In quel fazzoletto di anni ci si interroga su tutto, si cercano spiegazioni come manuali per la vita che verrà. Le loro lettere dal nulla, piene di rassicurazioni per chi è in pena e di piccoli desideri per se stessi, sono lettere di bambini. Come bambini sono le vittime prime delle grandi tragedie del nostro tempo, a cominciare da quella delle migrazioni per fame, guerra, calamità.
Una sola cosa ci conforta, pensando alla «squadra di stoppa» — così Emilio De Martino chiamò in un libro una formazione calcistica di bambini — sepolta così lontano da noi. Ci conforta che siano insieme, che siano una squadra, che possano abbracciarsi, piangere, confortarsi, sperare. Che possano farlo insieme. Perché, sempre, è la solitudine la più terribile delle condizioni umane. Alfredino era solo, nella terra cattiva di Vermicino. Loro sono una squadra. Un portiere sa come si passa la palla a un terzino e un centrocampista copre la zona del campo lasciata libera da un attaccante che non è rientrato. Nella società solitaria e interconnessa quei ragazzi vivono, insieme, la condizione di sequestrati al mondo.
Mi è capitato di visitare i luoghi in cui venivano torturati i ragazzi argentini durante la dittatura militare. La caserma in cui li seviziavano non era lontana dallo stadio dove, nel 1978, la nazionale biancoceleste vinse il campionato del mondo. I torturati sentivano, mentre i militari gli applicavano gli elettrodi ai genitali, le urla di gioia per un gol di Kempes.
Anche in questi giorni si giocano i mondiali. Sarebbe bello che la squadra che li vincerà si sfidasse un giorno con i bambini thailandesi che, mentre scrivo, stanno attraversando a nuoto, loro che non sanno farlo, la strada per il ritorno alla vita. In ogni caso, sia chiaro, è proprio la «squadra di stoppa» di Tham Luang la vera vincitrice dei mondiali di calcio 2018.