AIUTARE GLI INVESTIMENTI CONTRO LA PRECARIETÀ
Dopo il Jobs Act molti hanno capito che le norme non creano occupazione, ma possono aumentare o diminuire i diritti. La dignità del lavoro è legata al diritto, mentre la domanda di lavoro dipende dalla domanda aggregata e dagli investimenti. In questo scenario si muove il Decreto Dignità. L’obiettivo del Decreto Dignità è duplice: 1) aggredire la precarietà; 2) innescare dei meccanismi di incentivi che favoriscono lavoro qualificato, stabile e investimenti da parte delle imprese in capitale umano, che si sviluppa durante relazioni di lungo termine.
Rispetto al primo punto, si cerca evidentemente di modificare la composizione dell’occupazione che negli ultimi anni è stata fortemente sbilanciata nei flussi a favore dell’occupazione a termine e precaria. Vi è stato un abuso del contratto a termine, che ha una intrinseca precarietà, dovuta al fatto che mette una scadenza al lavoratore e lo rende ricattabile. L’inps documenta che nel 2017, 4 contratti su 5 sono stati a termine, e molti di questi sono durati pochi mesi. L’istat ci dice, nell’ultimo trimestre, che il lavoro a tempo indeterminato è addirittura diminuito e che l’aumento dell’occupazione è trainata solo dall’aumento dei contratti a termine. Questo tipo di occupazione non solo genera problemi sociali legati alla natura della precarietà, ma ha anche un impatto negativo sull’economia, e qui veniamo al secondo punto: il lavoro a termine incentiva investimenti e strategie da parte delle imprese cosiddette labour intensive, che non si affidano alla innovazione e al progresso tecnico, e che quindi generano pochi guadagni di produttività. Sono numerose le ricerche recenti di economisti italiani ed europei (Sylos Labini, Dosi, Pianta, Roventini, Mazzucato, Kleinknecht, Naastepad) che dimostrano come una eccessiva flessibilità del lavoro e la diffusione di contratti temporanei, portano minori vantaggi di produttività del lavoro, e un più lento progresso tecnologico. Questo per un duplice ordine di motivi: gli investimenti capital intensive sono disincentivati e i lavoratori con un alto turn over sono scoraggiati dal profondere maggiore impegno nel proprio lavoro, sapendo che il rapporto presto si interromperà. Cose che gli economisti conoscono bene.
Inoltre, con il Decreto Dignità l‘italia si mette in linea con le direttive europee (1999/70; 2017/0355). In Europa il contratto a termine dura massimo 24 mesi, in Italia il Decreto Dignità lo porta da 36 a 24. In Europa il numero di rinnovi in media è di 3, in Italia il Decreto Dignità lo porta da 5 a 4. In Europa la «causale» per il contratto a termine esiste quasi dappertutto. In Francia esiste un termine di 18 mesi e l’obbligo di «causale». In Spagna si fissano tre condizioni precise per il contratto a tempo determinato. In Germania esiste un modello di «causale» attenuata, simile a quello introdotto con il Decreto Dignità. Nelle direttive dell’ue il lavoro a termine viene scoraggiato, e viene in generale ammesso un contratto a termine libero solo per i primi 6 mesi, considerati come una prova (come dice la sentenza della Corte di Giustizia dell’ue, C-98/09). Il Decreto Dignità permette il primo contratto libero, senza «causale», fino a 12 mesi. In Europa, almeno in quella dalle performance migliori, prevale un modello di flexicurity; con il Decreto Dignità l’italia si avvicina al modello di flexicurity.
È sempre possibile migliorare gli interventi legislativi, in Parlamento, senza cambiare l’impianto. Ad esempio, si potrebbe inserire una clausola di trasformazione automatica del contratto a termine verso il contratto a tempo indeterminato, con un incentivo per le imprese, e il ministro Di Maio sembra avere la giusta sensibilità per dialogare con le imprese e accogliere istanze di questo tipo.
Tuttavia, non sembra esserci nessuna ragione teorica ed empirica fondata, in economia, che giustifichi affermazioni del tipo «vincoli al contratto temporaneo scoraggiano gli investimenti», oppure come è stato scritto, «l’impresa X si troverà a non poter rinnovare oltre 200 lavoratori assunti in primo contratto in modo “acausale”, dovendo adesso fare il rinnovo con “causale”». Queste affermazioni sono prive di fondamento perché sono altre, secondo la ricerca scientifica, le determinanti degli investimenti, e non certo il tipo di contratto. Inoltre se un’impresa multinazionale, con oltre 200 lavoratori a termine, non può rinnovare con una causale tanti lavoratori a termine, potrebbe farlo con contratto a tempo indeterminato, che sarebbe anche più vantaggioso perché economicamente più conveniente. Se non lo facesse, sarebbe perché priva di domanda adeguata, ma certo non perché il contratto a termine causa vincoli tali da provocare il «licenziamento» di 200 persone. Come si titolava sul Sole 24 Ore in occasione del dibattito che ha preceduto la liberalizzazione nel 2014 del contratto a termine in Italia: «in Germania, Francia e Spagna esistono più vincoli per il contratto a termine che in Italia». Adesso, con il Decreto Dignità si può cambiare direzione.
*Professore di Economia del Lavoro, Università di Roma Tre, e consulente del ministro Di Maio al ministero del Lavoro