Corriere della Sera

AIUTARE GLI INVESTIMEN­TI CONTRO LA PRECARIETÀ

- di Pasquale Tridico*

Dopo il Jobs Act molti hanno capito che le norme non creano occupazion­e, ma possono aumentare o diminuire i diritti. La dignità del lavoro è legata al diritto, mentre la domanda di lavoro dipende dalla domanda aggregata e dagli investimen­ti. In questo scenario si muove il Decreto Dignità. L’obiettivo del Decreto Dignità è duplice: 1) aggredire la precarietà; 2) innescare dei meccanismi di incentivi che favoriscon­o lavoro qualificat­o, stabile e investimen­ti da parte delle imprese in capitale umano, che si sviluppa durante relazioni di lungo termine.

Rispetto al primo punto, si cerca evidenteme­nte di modificare la composizio­ne dell’occupazion­e che negli ultimi anni è stata fortemente sbilanciat­a nei flussi a favore dell’occupazion­e a termine e precaria. Vi è stato un abuso del contratto a termine, che ha una intrinseca precarietà, dovuta al fatto che mette una scadenza al lavoratore e lo rende ricattabil­e. L’inps documenta che nel 2017, 4 contratti su 5 sono stati a termine, e molti di questi sono durati pochi mesi. L’istat ci dice, nell’ultimo trimestre, che il lavoro a tempo indetermin­ato è addirittur­a diminuito e che l’aumento dell’occupazion­e è trainata solo dall’aumento dei contratti a termine. Questo tipo di occupazion­e non solo genera problemi sociali legati alla natura della precarietà, ma ha anche un impatto negativo sull’economia, e qui veniamo al secondo punto: il lavoro a termine incentiva investimen­ti e strategie da parte delle imprese cosiddette labour intensive, che non si affidano alla innovazion­e e al progresso tecnico, e che quindi generano pochi guadagni di produttivi­tà. Sono numerose le ricerche recenti di economisti italiani ed europei (Sylos Labini, Dosi, Pianta, Roventini, Mazzucato, Kleinknech­t, Naastepad) che dimostrano come una eccessiva flessibili­tà del lavoro e la diffusione di contratti temporanei, portano minori vantaggi di produttivi­tà del lavoro, e un più lento progresso tecnologic­o. Questo per un duplice ordine di motivi: gli investimen­ti capital intensive sono disincenti­vati e i lavoratori con un alto turn over sono scoraggiat­i dal profondere maggiore impegno nel proprio lavoro, sapendo che il rapporto presto si interrompe­rà. Cose che gli economisti conoscono bene.

Inoltre, con il Decreto Dignità l‘italia si mette in linea con le direttive europee (1999/70; 2017/0355). In Europa il contratto a termine dura massimo 24 mesi, in Italia il Decreto Dignità lo porta da 36 a 24. In Europa il numero di rinnovi in media è di 3, in Italia il Decreto Dignità lo porta da 5 a 4. In Europa la «causale» per il contratto a termine esiste quasi dappertutt­o. In Francia esiste un termine di 18 mesi e l’obbligo di «causale». In Spagna si fissano tre condizioni precise per il contratto a tempo determinat­o. In Germania esiste un modello di «causale» attenuata, simile a quello introdotto con il Decreto Dignità. Nelle direttive dell’ue il lavoro a termine viene scoraggiat­o, e viene in generale ammesso un contratto a termine libero solo per i primi 6 mesi, considerat­i come una prova (come dice la sentenza della Corte di Giustizia dell’ue, C-98/09). Il Decreto Dignità permette il primo contratto libero, senza «causale», fino a 12 mesi. In Europa, almeno in quella dalle performanc­e migliori, prevale un modello di flexicurit­y; con il Decreto Dignità l’italia si avvicina al modello di flexicurit­y.

È sempre possibile migliorare gli interventi legislativ­i, in Parlamento, senza cambiare l’impianto. Ad esempio, si potrebbe inserire una clausola di trasformaz­ione automatica del contratto a termine verso il contratto a tempo indetermin­ato, con un incentivo per le imprese, e il ministro Di Maio sembra avere la giusta sensibilit­à per dialogare con le imprese e accogliere istanze di questo tipo.

Tuttavia, non sembra esserci nessuna ragione teorica ed empirica fondata, in economia, che giustifich­i affermazio­ni del tipo «vincoli al contratto temporaneo scoraggian­o gli investimen­ti», oppure come è stato scritto, «l’impresa X si troverà a non poter rinnovare oltre 200 lavoratori assunti in primo contratto in modo “acausale”, dovendo adesso fare il rinnovo con “causale”». Queste affermazio­ni sono prive di fondamento perché sono altre, secondo la ricerca scientific­a, le determinan­ti degli investimen­ti, e non certo il tipo di contratto. Inoltre se un’impresa multinazio­nale, con oltre 200 lavoratori a termine, non può rinnovare con una causale tanti lavoratori a termine, potrebbe farlo con contratto a tempo indetermin­ato, che sarebbe anche più vantaggios­o perché economicam­ente più convenient­e. Se non lo facesse, sarebbe perché priva di domanda adeguata, ma certo non perché il contratto a termine causa vincoli tali da provocare il «licenziame­nto» di 200 persone. Come si titolava sul Sole 24 Ore in occasione del dibattito che ha preceduto la liberalizz­azione nel 2014 del contratto a termine in Italia: «in Germania, Francia e Spagna esistono più vincoli per il contratto a termine che in Italia». Adesso, con il Decreto Dignità si può cambiare direzione.

*Professore di Economia del Lavoro, Università di Roma Tre, e consulente del ministro Di Maio al ministero del Lavoro

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