Non solo cinepanettone Il suo linguaggio ha coperto tutti i generi della commedia
Adesso tutti diranno che se ne è andato l’inventore del cinepanettone, nato «fuoristagione» nel 1983 con Sapore di mare (prima proiezione il 17 febbraio) ma poi subito rientrato nei ranghi con Vacanze di Natale (il 22 dicembre dello stesso anno). Ma ridurlo a una sola tipologia sarebbe fare un grosso torto a questo prolificissimo regista che, in coppia col fratello sceneggiatore Enrico, ha cavalcato il cinema popolare italiano per quattro decenni — la prima regia fu Luna di miele in tre (1976), l’ultima Caccia al tesoro (2017) — coprendone quasi tutti i generi. Con esiti alterni, bisogna dirlo, a volte anticipando le svolte del Paese (Le finte bionde intercettava l’onda del qualunquismo e il culto dell’ego con bella lungimiranza sul ventennio berlusconiano. E per questo forse non fu un successo al botteghino), altre volte accontentandosi di mettere in farsa quello che arrivava dalle cronache dei giornali (S.P.Q.R. – 2000 e ½ anni fa anticipava Tangentopoli ai tempi di
Poppea. Con una volgarità che ne decretò il successo al botteghino). Altre volte ancora cercando di recuperare quell’idea di «cinema medio», professionale e rispettoso dei gusti del pubblico, tradizionale ma anche piacevole e attento ai cambiamenti del costume, che l’italia aveva perso con la fine della stagione d’oro della sua commedia e che Carlo (ed Enrico) Vanzina inseguivano. Lo si intuisce in film come I mitici – Colpo
gobbo a Milano (dove si rifà allo spirito dei Soliti ignoti ma anche di Sette uomini
d’oro), in Il pranzo della domenica che è probabilmente la loro miglior riuscita, nei tentativi di percorrere generi insoliti — il film di cappa e spada (La partita), il giallo (Tre colonne in cronaca) — nel piacere della rivisitazione (Febbre da cavallo – La mandrakata) fino ai
recentissimi Non si ruba a casa dei ladri e Caccia al tesoro, dove la commedia si colora di una leggerezza insolita per il nostro cinema commerciale, capace di ritrovare un sguardo bonario ma non corrivo, venato di un moralismo non sgradevole. Certo, tra i 73 film (e tre miniserie tv) che Carlo Vanzina ha diretto ci sono molti titoli dimenticati e dimenticabili, ma anche tantissimi volti che devono a lui e alla sua capacità di trarne il meglio il trampolino per la propria carriera: Abatantuono naturalmente, e poi Isabella Ferrari, Monica Bellucci, evidentemente Christian De Sica, e ancora Max Tortora, Ricky Memphis, Maurizio Mattioli. Anche Valeria Marini e Manuela Arcuri hanno trovato con lui dei piccoli momenti di gloria. E sicuramente ne dimentico. Probabilmente ha diretto troppi film, spesso anche due all’anno, e nella quantità il rischio della routine o della superficialità era sempre presente, eppure di fronte alle pochezze di certi giovani «autori» il cinema di Carlo Vanzina dimostra una qualità indubbia: non ha mai abdicato alla voglia di credere in quel prodotto medio che l’industria italiana da troppi anni non è più stata capace di coltivare. E che lui invece aveva sempre inseguito.