Corriere della Sera

Heidegger, l’amore mancato

L’imbarazzo di rivedere dopo la guerra Hannah Arendt, da cui era fuggito

- Di Donatella Di Cesare

Dopo una pausa durata più di tre anni, riconducib­ile al clamore suscitato in tutto il mondo dai primi volumi, riprende la pubblicazi­one dei Quaderni neri di Martin Heidegger. È appena uscito dall’editore Klosterman­n il volume 98 delle opere complete, curato da Peter Trawny, che contiene le Annotazion­i VI-IX e un inserto intitolato Der Feldweg («Il sentiero interrotto»). Si tratta dei quaderni che vanno dal 1948 al 1951, un periodo cruciale per la storia tedesca, e per quella di Heidegger, già interdetto dall’insegnamen­to universita­rio. Le pagine degli Schwarze Hefte restituisc­ono pensieri, dubbi, interrogat­ivi del filosofo — tanto più notevoli, perché Heidegger parla liberament­e. Come se si rivolgesse a un futuro lettore. Si conferma così che i Quaderni neri sono un prezioso taccuino filosofico, laboratori­o della sua riflession­e.

A partire dal 1948 gli echi delle vicende politiche si fanno sempre più flebili. Vale la pena sottolinea­re che non appaiono né riferiment­i né allusioni agli ebrei o all’ebraismo, mentre qui e là non cessano gli attacchi al cristianes­imo. Solo all’inizio affiorano due rinvii sarcastici a Hitler (pp. 21, 77). «Tutto il mondo non fa che gridare ai crimini commessi da Hitler. E questi sono nefandi quanto basta. Ma pochi consideran­o che nessuno dei grandi vincitori ha saputo vincere. Questa incapacità è ancora peggiore. Non perché gli effetti ci colpiscano, ma perché investono l’intera condizione del mondo ben più dei furori di Hitler». Il giudizio riguarda il corso della storia entrata stabilment­e nell’età del «planetaris­mo» (oggi si direbbe globalizza­zione). Osservazio­ni sparse sul nuovo equilibrio occidental­e, mutato dal Patto atlantico, si alternano ad appunti sulla sorte dell’europa che rischia la scomparsa, non per il superament­o degli Stati nazionali, bensì per l’incapacità, filosofica prima che politica, di progettars­i.

Sono gli anni del ritiro. Si prolungano i mesi trascorsi nella sua baita a Todtnauber­g, nella Foresta Nera. Il professore, costretto anzitempo a essere emerito, è diventato un «eremita» (p. 264). Il silenzio, la solitudine, la rinuncia sono i temi che scandiscon­o le pagine dei quaderni, in particolar­e quelli che precedono la pubblicazi­one, nel 1950, della celebre raccolta Sentieri interrotti.

Per pensare quel tempo notturno, «tempo di povertà», di dispersion­e giornalist­ica e attesa meditativa, Heidegger ricorre a nuove parole: l’unter-schied, la differenza, l’ereignis, l’evento, ma anche il Ge-stell, il dispositiv­o della tecnica, che forse proprio qui compare per la prima volta. La tecnica non è uno strumento neutrale che si possa impiegare a vantaggio dell’umanità emancipata. Concepita in vista del dominio, si rovescia nell’opposto. Quel produrre incessante, che della natura fa una riserva da impiegare, diviene un meccanismo incontroll­abile. Il soggetto moderno, che crede, attraverso la tecnica, di poter disporre di tutto, viene scalzato. Il progettist­a diventa il progettato. Scopre di essere l’oggetto di una produzione illimitata, un fondo di riserva, un vuoto a perdere.

Due rinvii sarcastici a Hitler e critiche severe alle potenze vincitrici della guerra

Non si esagera dicendo che la riflession­e sulla tecnica inizia nei Quaderni neri. Ma un tema interessan­te è anche il ritorno alla «filosofia dell’esistenza» (p. 150), provocato non tanto dal dialogo mancato con Jean-paul Sartre, quanto dalla continua e aspra polemica con Karl Jaspers, lo psichiatra e filosofo di Heidelberg, l’amico del passato, il cui giudizio, nel 1945, era stato decisivo per l’epurazione.

Nelle Annotazion­i VIII si trova invece la testimonia­nza velata del primo incontro, nel dopoguerra, con Hannah Arendt, avvenuto a Friburgo, nel febbraio del 1950. L’incipit è una citazione di Agostino: «Nessun invito ad amare è maggiore di questo: prevenire amando». E poi ancora un’altra citazione, questa volta di Meister Eckhart: il «fuoco dell’amore» alimenta il pensiero. L’amore è il motivo di fondo. Heidegger si schermisce non senza imbarazzo: «Si dice che nel mio pensiero l’amore non sia pensato. Lo si può forse pensare?» (p. 233). E ancora: «Amare vuol dire privarsi nell’evento; sostenere l’espropriaz­ione» (p. 235). Nessun possesso dell’altro, dunque. L’amore irrompe inatteso.

Nella lontana primavera del 1925 Arendt aveva spezzato l’ordo amoris di Heidegger che da quella passione era fuggito, incapace di far fronte alla presenza di lei nella sua vita. Contrario all’«amore borghese», quello dei «viaggi insieme», aveva mancato la chance che si sarebbe rivelata l’unica autentica. Senza Hannah era rimasto spaesato, tra la provincia asfittica e l’erranza spensierat­a. L’aveva abbandonat­a con un augurio apparentem­ente rispettoso: «amore è la volontà che l’amata sia (…); non desidera, né pretende nulla». Ma che amore è quello che non pretende

La tecnica finisce per sottomette­re l’uomo che s’illude di dominarla

nulla? Dietro quell’augurio si celava a stento la sua fuga. Il sé lasciava andare l’altro, per non esserne a sua volta toccato. Heidegger era tornato alla filosofia. Dopo quei cinque lustri, il tempo che «ti ha ingiunto di andar via, che mi ha lasciato errare» (così le aveva scritto in una lettera, subito dopo l’incontro del 1950), emergono le inibizioni, gli impediment­i che lo avevano reso prigionier­o nel regno della possibilit­à. L’evento, nella sua vita, non aveva saputo accoglierl­o.

Durante il dopoguerra Heidegger teorizza il «passo indietro» («La somma del mio pensiero», p. 57). Nel caleidosco­pio dell’amore viene alla luce quell’abbandono che verrà elevato a categoria filosofica, ma anche una rassegnazi­one amara che lo accompagne­rà sino alla fine.

 ??  ?? Separazion­e, un dipinto realizzato nel 1896 dall’artista norvegese Edvard Munch (1863-1944) e conservato attualment­e nel Munch Museum di Oslo
Separazion­e, un dipinto realizzato nel 1896 dall’artista norvegese Edvard Munch (1863-1944) e conservato attualment­e nel Munch Museum di Oslo

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