CHI DANZA SULL’ORLO DELLA CRISI
Danziamo già sull’orlo di una crisi istituzionale. Il presidente della Repubblica è costretto a telefonare al presidente del Consiglio per ricordargli quale è il suo lavoro: dirigere la politica del governo ed esserne responsabile. Mattarella, capo delle forze armate e garante dell’unità nazionale, non poteva assistere inerme allo spettacolo senza precedenti di una nave militare italiana cui veniva impedito l’ingresso in un porto italiano. Approfittando del vuoto apertosi a Palazzo Chigi, il ministro dell’interno ha di fatto provato a guidare lui la politica generale del governo, pur non avendo autorità né sulla Guardia Costiera né sulla gestione dei porti. Ha perfino dato — ovviamente inascoltato — indicazioni al potere giudiziario, annunciando che avrebbe permesso lo sbarco dei migranti solo se «in manette», come da una nave pirata, sfruttando l’alibi dell’ammutinamento (prontamente fornitogli dal ministro Toninelli, sempre più vittima della sindrome di Stoccolma).
Ma chi troppo vuole nulla stringe, dice la saggezza popolare. E infatti Salvini ha subìto il primo smacco della sua campagna d’estate. Ma la sconfitta non è solo sua. E già si staglia all’orizzonte una rischiosa occasione di rivincita: una barca con centinaia di migranti a bordo, stavolta abbastanza robusta da poter arrivare fino alle nostre coste, aprendo un serio problema umanitario.
S ulla vicenda dei migranti, già complicata di per sé, si sta rivelando una pericolosa confusione di poteri tra esecutivo, giudiziario, ministri, corpi e apparati dello Stato. Che cosa può accadere di fronte a un «cigno nero», l’evento imprevedibile e catastrofico evocato dal ministro Savona, che nel mondo di oggi non si può mai escludere? La struttura del governo, così come è, può reggere a una crisi più seria? Chi ha a cuore la credibilità del governo italiano, peraltro appena nato e senza molte alternative in Parlamento, deve provare a dare una risposta a queste domande. Due correzioni vanno introdotte al più presto.
La prima riguarda Giuseppe Conte. Sappiamo che ama fare «l’avvocato del popolo», ma qui innanzitutto serve un presidente del Consiglio. Non sta lì per fare il cerimoniere della maggioranza giallo-verde. Ovvio che non abbia la forza politica per imporsi ai due vicepresidenti, ma almeno dovrebbe ottenere da loro di evitargli brutte figure in pubblico: per esempio contraddicendosi, l’uno a favore e l’altro contro l’intervento
del Quirinale. Così facendo sabotano ulteriormente l’autorità di Palazzo Chigi e così segano il ramo su cui il governo è seduto. In fin dei conti sono stati i due partiti a imporre questa strana soluzione del «premier ignoto», e ora devono saperla gestire: cedendogli il potere, almeno formale, di rappresentare una linea unica del governo e di dirimere prima che esplodano i conflitti tra ministri. Per esempio: sugli accordi di commercio tra Europa e Canada, il governo sta con Di Maio che li vuole denunciare o con Tria che li vuole rispettare?
La seconda correzione deve riguardare Salvini. Il leader della Lega ha tutto il diritto, e diremmo anche il dovere, di realizzare il suo programma elettorale che prevedeva una stretta sul flusso di migranti (ma anche una riduzione dello stock dei clandestini già in Italia, circa cinquecentomila: di espulsioni finora non si ha notizia). Salvini ha anche l’indiscutibile merito di aver scosso con energia l’ipocrisia dell’europa, che predicava l’accoglienza e la faceva praticare solo all’italia. Però il ministro dell’interno deve comprendere che l’azione non è sempre provocazione; e che l’unico modo per riuscire nel suo intento è di agire nel rispetto delle leggi e in leale collaborazione con gli altri poteri dello Stato. Altrimenti perderà. I militari, i servizi, la magistratura, non sono lì al servizio di una politica, ma della Repubblica. Indebolirli, come Salvini sta per esempio facendo con la Guardia Costiera, equivale a indebolire l’azione dello Stato italiano in un quadrante cruciale e pericoloso come il Mediterraneo. Perfino i mercati finanziari guardano con attenzione alla crisi dei migranti per capire se c’è un pilota ai comandi, cosa che potrà tornare utile quando si tratterà di affrontare la più delicata questione dei conti pubblici. Un Paese è forte se ha un governo forte. Ma un governo non è forte solo se è forte il suo consenso. Non siamo certo noi a dover ricordare al ministro Salvini che gli italiani vengono prima di tutto, anche prima dei suoi stratosferici sondaggi.