PERCHÉ OGGI ARISTOFANE CI FA RIDERE
Elzeviro Satira politica a Siracusa
Si concludono domani al Teatro Greco di Siracusa le rappresentazioni dei drammi antichi, stagione 2018, progettata e realizzata dal commissario straordinario dell’istituto del dramma antico, Pier Francesco Pinelli. Direttore artistico, Roberto Andò. Culmine della ben riuscita stagione è stata una intensa e salutare dose di commedia aristofanea: Cavalieri (regia di Gianpiero Solari, mattatore Francesco Pannofino) e replica delle Rane, andate in scena con gran successo l’anno passato (regia di Giorgio Barberio Corsetti, mattatori Ficarra e Picone), traduzione, in entrambi i casi, riuscitissima e sanamente moderna, di Olimpia Imperio.
È stato un vero e proprio ritorno di Aristofane. Ritorno quanto mai salutare, in tempi di satira politica tutto sommato languente. E può stupire che un genere da noi così vitale e necessario batta la fiacca: nel Paese che fu di geniali signori della scena quali Petrolini e Totò, per non ricordare che i maggiori e i tempi difficili in cui essi dispiegarono il loro estro. Forse nemmeno oggi la materia mancherebbe.
Ma le antenne del pubblico sono deste, a giudicare dal successo strepitoso dei Cavalieri sin dalla «prima» (29 giugno) e via via nelle repliche di questo giorni. Applausi spontanei e impetuosi si udirono quando, all’inizio della commedia, il nuovo demagogo (Salcicciaio), che scalzerà — dopo una contesa «elettorale» esilarante — il demagogo al potere, ammette di conoscere a mala pena l’alfabeto, per cui chi lo sta spingendo e incoraggiando si rammarica: «Questo potrebbe essere un difetto, sarebbe meglio che tu fossi completamente analfabeta!».
Non seguiremo qui lo sviluppo dell’azione, che termina con la magica rigenerazione del Popolo: da vecchio rintronato e succubo dei demagoghi a giovane politicamente avveduto. Porremo invece la questione che sempre ritorna: perché la commedia di Aristofane, così ricca di sostanza politica legata ai fatti e agli uomini del tempo suo, risulta ancora oggi così efficace, mentre la commedia di un Menandro o anche di Plauto, incentrata su vicende umane-private (cioè sul presunto «uomo di sempre») ci lascia piuttosto freddi?
Una risposta che si può azzardare è che il linguaggio così come le dinamiche della lotta politica vivono una continuità lunghissima. Noi usiamo le parole politiche dell’inquieta e conflittuale Atene democratica. E sappiamo bene che, quantunque sotto la continuità scorra e operi il mutamento, quella continuità ha tuttavia un senso. Che è quotidianamente sotto i nostri occhi e nella nostra esperienza: il fatto cioè che tuttora non abbiamo risolto i dilemmi che furono i loro e che loro seppero concettualizzare. E su cui seppero, in modo irresistibile e tale che ancora ci scuote, scherzare. E ridere di sé stessi.
Non è stata dunque una forzatura, ma un brillante coup de théâtre se, nelle battute del coro dei cavalieri in lotta contro il pessimo demagogo dominante e ormai in declino, il regista ha interpolato il grido cadenzato e apprezzatissimo dal pubblico: «O-ne-stà, o-ne-stà!». Vitalità della commedia di Aristofane.