Uniti sul dossier più complicato
Avrebbe dovuto evitare il dossier perché divisivo, invece ha dato ragione a Mosca
«Non aspettatevi una scena alla Perry Mason», aveva detto ai giornalisti Donald Trump prima di arrivare a Helsinki per l’incontro con Vladimir Putin. Il celebre avvocato della serie tv riusciva sempre a far confessare il vero colpevole. Il presidente americano, invece, in una delle più attese conferenze stampa dell’anno, ha addirittura capovolto le parti. Ha preso per buone, in mondovisione, le surreali giustificazioni di Putin che è arrivato a paragonare i dodici agenti del Gru, il servizio segreto militare russo, cioè l’élite dello spionaggio di Mosca, al miliardario George Soros. Qualunque politico statunitense, non importa se democratico o repubblicano, avrebbe sollevato l’obiezione più ovvia: quei dodici funzionari dipendono direttamente dal Cremlino e sono accusati dal Super procuratore Robert Mueller di aver «cospirato contro la sicurezza degli Stati Uniti», interferendo in modo surrettizio nelle elezioni del 2016; mentre le iniziative di Soros possono piacere o no, ma sono comunque legittime.
Alla vigilia del vertice diversi analisti, oltre ai parlamentari democratici in blocco, avevano espresso il timore che «Vladimir» avrebbe potuto intrappolare o almeno manipolare «The Donald». Una preoccupazione, in realtà, condivisa anche da alcuni capi di governo europei. Risulta che il presidente della Finlandia, Sauli Niinisto ne abbia parlato nei giorni scorsi con Angela Merkel, il suo principale punto di riferimento nell’unione europea. A Berlino si paventava in particolare uno slittamento trumpiano sull’annessione russa della Crimea e sulle conseguenti sanzioni economiche adottate da Ue e Usa contro Mosca. Ieri mattina il finlandese, diligentemente, avrebbe ricordato la posizione europea all’ospite americano, nel bilaterale all’ora di colazione.
Su questo aspetto le ansie di Merkel e Niinisto si sono rivelate eccessive. Trump non si è spostato dalla linea concordata con gli alleati e la distanza con Putin sulla questione ucraina è apparsa chiara dalle dichiarazioni ufficiali dell’uno e dell’altro.
Ma il punto è che la dinamica del faccia a faccia è stata diversa da come l’avevano immaginata i diplomatici. I consiglieri delle due parti avevano relegato il «Russiagate», cioè il tema potenzialmente più esplosivo, all’ultimo posto della scaletta, dopo il terrorismo, le armi nucleari, la Siria, l’iran e l’ucraina. E lo stesso Trump, dopo la battuta su Perry Mason, non ne aveva più fatto cenno.
Nel meeting ristretto, però, i leader si sono ritrovati in sintonia proprio sul dossier apparentemente più complicato. Trump ha offerto una specie di condono preventivo a Putin, che non chiedeva e forse neanche si aspettava di meglio. Qualche ora dopo si sono spalleggiati davanti ai giornalisti: difficile pensare che non abbiano in qualche modo concordato di far passare per spontanea una complicità che era stata invece accuratamente «testata» nel colloquio riservato. Il presidente Usa ha attaccato pesantemente l’fbi, la comunità dei servizi segreti, Hillary Clinton e l’opposizione parlamentare, avallando di fatto la tesi cospirativa di Putin: gli Stati Uniti saranno pure un Paese democratico, ma con un sistema minato da una lotta politica ormai senza scrupoli. Parole che hanno già suscitato la reazione furibonda non solo dell’ex direttore della Cia John Brennan («sovversivo»), ma anche dei senatori repubblicani più critici, come Jeff Flake («vergognoso») o Lindsay Graham.
Putin ha offerto un’apertura posticcia: consentire a Mueller di andare a Mosca per interrogare gli agenti del Gru, a condizione che gli inquirenti russi possano fare la stessa cosa negli Stati Uniti con i sospettati di spionaggio.
«The Donald» torna a casa con la certezza che l’incontro di Helsinki alimenterà un’altra aspra ondata di critiche e di sospetti sui suoi rapporti con Vladimir. Un rischio politico molto alto che evidentemente il presidente degli Stati Uniti pensa di poter controllare.