Corriere della Sera

«Mio figlio ucciso, ho indagato per lui»

Nel 2013 crollò la torre piloti a Genova, la madre di Giuseppe Tusa fa ripartire l’inchiesta

- Di Giusi Fasano

La giustizia. Adele l’ha cercata, l’ha rincorsa, l’ha chiesta in ogni dove senza arrendersi mai, nemmeno quando sembrava che fosse tutto perduto. E oggi è grazie alla sua tenacia se si terrà un processo bis sul disastro del Jolly Nero, il portaconta­iner che il 7 maggio del 2013 si schiantò contro la banchina del porto di Genova. Tra le vittime anche suo figlio Giuseppe. Il pm aveva chiesto di archiviare l’inchiesta.

Giustizia

«Ecco di cos’è capace una mamma che chiede giustizia Non voglio colpevoli a tutti i costi, solo andare a fondo»

IO NON MI SONO ARRESA Il figlio di Adele è morto nel crollo della torre piloti di Genova. Quando il pm ha chiesto di archiviare l’inchiesta sulla costruzion­e dell’edificio lei ha studiato carte e sentito testimoni. Così, con i suoi legali, ha convinto i magistrati a proseguire

La voce di Adele Chiello Tusa, 62 anni, arriva dalla sua Palermo. «Quando sopravvivi a un figlio i ricordi diventano gioielli preziosiss­imi» premette. Ne ripesca uno di tanti anni prima. «Dopo la morte di Giuseppe misi le mani in vecchie scatole piene di fotografie e oggetti suoi. Ritrovai un foglietto che aveva scritto in prima media. In classe c’era una disputa su un bloc notes danneggiat­o, lui si inventò un processo e assegnò per iscritto un ruolo a ciascuno: un prof era il giudice, un altro era l’avvocato, i compagni erano testimoni, lui era il pubblico ministero. Il mio bambino meraviglio­so aveva già ben in mente il concetto di giustizia. Come posso non averlo io?».

Questo è il punto: la giustizia. Adele l’ha cercata, l’ha rincorsa, l’ha chiesta in ogni dove senza arrendersi mai, nemmeno quando sembrava che fosse tutto perduto. E oggi è grazie alla sua tenacia se si terrà un processo bis sul disastro del Jolly Nero, il portaconta­iner che il 7 maggio del 2013 si schiantò contro la banchina del porto di Genova. La torre di controllo crollò in acqua e lì dentro c’era anche Giuseppe, 30 anni, marinaio della Guardia Costiera. I morti quel giorno furono nove.

«Io ho visto le mani di mio figlio, signor giudice» ha detto Adele in aula durante il primo processo contro l’equipaggio e l’armatore. «Le sue dita erano consumate... chissà quanto tempo avrà provato ad aprire quella porta». Il processo si è chiuso con la condanna penale di quattro imputati, l’assoluzion­e di altri due e la condanna amministra­tiva della società degli armatori (Messina). A ottobre si celebrerà l’appello.

Adele però ha sempre creduto che le responsabi­lità fossero da cercare anche fra i costruttor­i, i progettist­i, i collaudato­ri della torre. E fra i vertici della Guardia Costiera che quel giorno rappresent­avano i datori di lavoro di Giuseppe. «Io nella vita sono stata solo moglie e mamma, nient’altro. Non sono laureata e non sono esperta di costruzion­i o di sicurezza sul lavoro», dice. «Ma dopo la morte di mio figlio dovevo dare un senso al mio dolore. Così mi sono studiata tutti gli atti dell’inchiesta, migliaia di pagine. Li ho praticamen­e imparati a memoria».

Più leggeva più capiva, più capiva più metteva a fuoco i punti deboli delle indagini, quelli mancanti. Rimase sbalordita quando la Procura chiese l’archiviazi­one dell’inchiesta sulla costruzion­e della torre. «Dovevo fare qualcosa» racconta ripensando a quei giorni. «Non sanno di cos’è capace una mamma che vuole giustizia per suo figlio...».

Lei, Adele, è stata capace di andare a cercare tutti i testimoni di cui aveva letto i nomi sui giornali, di incrociare le loro versioni, di ingaggiare consulenti che l’aiutassero a individuar­e le falle dell’inchiesta, di creare una pagina Facebook per mettere online ogni documento, ogni fotografia che potesse aiutarla a raccoglier­e indizi validi. «Ha studiato così a fondo le norme sulle certificaz­ioni di sicurezza delle navi e sulle autorizzaz­ioni per la costruzion­e della torre che alla fine ne sapeva almeno quanto noi, se non di più» giura Alessandra Guarini, uno dei tre avvocati che la difendono oggi (gli altri due sono Massimilia­no Gabrielli e Cesare Bulgheroni).

I legali di allora (erano altri) si opposero all’archiviazi­one portando in Procura gran parte della documentaz­ione che Adele aveva messo assieme con la sua personalis­sima inchiesta «di una madre che cerca la verità», come dice lei, «e non c’è verità senza giustizia».

Il giudice delle indagini preliminar­i ha letto tutto con attenzione e le ha dato ragione: «Non si archivia niente, si indaga altri otto mesi», ha ordinato.

Gli otto mesi sono passati. Alla fine delle nuove indagini anche la Procura si è convinta delle ragioni di Adele. Il pm Walter Cotugno ha avuto l’onestà intellettu­ale di ammettere che sì, in effetti non era stata una buona mossa la richiesta di archiviazi­one. E stavolta ha chiesto il processo per progettist­i, costruttor­i, collaudato­ri e per l’ammiraglio che avrebbe dovuto garantire la sicurezza di Giuseppe nella torre, cioè il luogo di lavoro di quel marinaio. L’udienza preliminar­e si è chiusa con il rinvio a giudizio di dodici persone (ammiraglio compreso) della società Rimorchiat­ori Riuniti e della Corporazio­ne dei piloti del porto. Inizio del processo: 19 settembre.

«Non voglio colpevoli a tutti i costi» chiarisce Adele. «Voglio solo andare fino in fondo. Lo devo a mio figlio».

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Adele Chiello Tusa con il figlio Giuseppe
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