La Biennale dei tempi incerti «Così l’arte ci farà da guida»
Il curatore Ralph Rugoff: una mostra contro chi non ascolta l’altro
VENEZIA «May you Live in Interesting Times», titolo della 58ª Biennale d’arte che si svolgerà a Venezia dall’11 maggio al 24 novembre 2019, è un antico detto cinese che si riferisce a tempi di incertezza e, per questo, interessanti. «In un’epoca in cui la diffusione digitale delle fake news mina la fiducia verso l’informazione e la politica è polarizzata, vale la pena mettere in discussione i nostri punti di riferimento attraverso l’arte. I tempi interessanti non sono quelli tranquilli, ma questi che viviamo. Questa frase cinese che ho scelto può sembrare fasulla, ma è stata usata anche da Kennedy ed è diventata centrale per la politica: potremmo proprio vivere in tempi interessanti».
La Biennale che ha in mente Ralph Rugoff, americano di nascita e attuale direttore della Hayward Gallery di Londra (sede che lui ha ravvivato con eventi da alcuni ritenuti pop), sembrerebbe abbastanza politica: «Oggi la politica è polarizzata, non c’è dialogo e Internet ha enfatizzato questo atteggiamento. L’arte, però, poiché abbraccia la contraddizione, può svolgere un ruolo di esploratore. Non esercita le sue forze nell’ambito della politica, non può fermare l’avanzata dei movimenti nazionalisti, le molte minacce alle istituzioni, né può alleviare il tragico destino dei profughi del pianeta. Tuttavia può essere una guida che ci aiuta a vivere questi tempi e a osservare la realtà da molteplici punti di vista». L’arte, dice Rugoff, «ha un ruolo da svolgere per risintonizzare il nostro pensiero e avere un dialogo con chi la pensa diversamente da noi. Gli artisti non sono interessanti se hanno un solo punto di vista. Sarà una mostra contro chi non vuole ascoltare l’altro; oggi tutto è sincronico: se parli di immigrazione ti accorgi che ciò che capita nel nostro giardinetto viene da lontano».
Non un tema schierato — sebbene nel curatore trapeli non sintonia con i cosiddetti «sovranisti» e con Trump —, piuttosto un approccio per interrogarsi sulla funzione anche sociale dell’arte, che includa sia piacere che pensiero critico. «Questa Biennale cercherà di essere una conversazione dell’artista con la sua creazione e poi dei fruitori con l’opera stessa. L’arte diventa così esperienza (storica funzione che gli accordava l’estetologo John Dewey, ndr) e deve far vedere il mondo in modo diverso. È, questa, un’idea che va da Leonardo da Vinci a Lenin».
La proposta di Rugoff, che è stato anche collaboratore di varie testate come «Artforum» e «Financial Times», è «tenere la Biennale più aperta e collegata possibile» (vedremo come una volta realizzata), «fresca» e si aspetta che venga a visitarla il Primo ministro italiano, «chiunque esso sia».
Rugoff racconta come è avvenuto l’incarico. «Il presidente della Biennale, Paolo Baratta, mi ha telefonato, mi ha chiesto se sapessi chi fosse e mi ha invitato per un pranzo a Roma dove mi ha formulato la proposta». Questo nel novembre scorso.
La sua esperienza come visitatore di una Biennale?
«Mi ha sempre lasciato esausto. Per visitare la Biennale servirebbero due mesi e, in genere, si hanno al massimo due giorni».
E dalla sua cosa si attende?
«La Biennale deve generare piacere, ma diverso da quello creato oggi dai media: l’arte ci porta in posti dove non siamo mai stati prima. La Biennale, ogni due anni, è un regolatore di orologio che ci costringe a riflettere sui tempi in cui viviamo». Che tempi?
«Il Regno Unito ha lasciato l’europa, negli Usa è stato eletto un presidente che nemmeno lui ci credeva; qui c’è un governo nuovo e in Europa risorgono governi parafascisti che credevamo facessero parte del passato e non del futuro».
Non nominerà un comitato di esperti: «Mi fido degli artisti per questa funzione; come curatori dipendiamo totalmente da loro, che fanno anche da passaparola».
Per Rugoff la Biennale è un progetto completamente nuovo, diverso dalle sue precedenti esperienze e da realizzare in due posti molto speciali, come Arsenale e Giardini: «Sono interessato al rapporto tra architettura e mostre».
Le Biennali con un tema dai confini aperti e inclusivi come questo e quelli degli ultimi anni sono nate vent’anni fa, nel ‘98, con Harald Szeemann, che ha dato vita alle Biennali a tema con un curatore. Quella Biennale si chiamò «Dapertutto» ed esprimeva la volontà di includere tutte le tendenze insieme. Da allora i temi sono stati adatti per essere affrontati da qualsiasi artista indipendentemente da appartenenze e classificazioni. Anche se qualche strizzatina d’occhio all’ideologia la 56ª rassegna curata da Okwui Enwezor l’ha avuta e qualche atteggiamento «radical chic» è stato presente. «Oggi però — come afferma il presidente Baratta — la Biennale si trova proprio a combattere, con i suoi artisti, contro il dilagante conformismo della banalità e contro la semplificazione a ogni costo e s’impone come una palestra di scherma per complessità e desideri, invita a un riarmo di sé stessi».