«Ora Roma come una terra di mafia»
Colpo ai Casamonica: 33 arresti. Il procuratore aggiunto Prestipino: clima di omertà
Duro colpo al clan Casamonica: 37 ordini di arresto (33 eseguiti) nella più grande operazione condotta contro la famiglia egemone nel quadrante Sudest della Capitale. «Cresce l’omertà e i clan cercano il consenso sociale. Anche Roma è diventata una terra di mafia» spiega al Corriere della Sera il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino.
Mentre il clan Casamonica ostentava il suo potere nello sfarzoso funerale di «zio Vittorio» dell’estate 2015, già muoveva meno rumorosamente i primi passi anche l’inchiesta della Dda capitolina sfociata ieri in 37 ordini di arresto (33 eseguiti) nella più grande operazione contro la famiglia egemone nel quadrante Sudest della Capitale. «Una consorteria mafiosa dall’estrema pericolosità» la definisce il gip Gaspare Sturzo: 16 membri della famiglia in galera (e sei degli imparentati Spada), 55 capi d’imputazione, reati che vanno dall’usura all’estorsione, all’intestazione fittizia dei beni, al traffico di droga (garantiva l’approvvigionamento di cocaina Luciano Strangio, referente romano della cosca ‘ndranghetista di San Luca), tutto all’interno di una associazione mafiosa fondata sulla «paura che tale cognome genera nella popolazione romana». Tra le vittime anche Marco Baldini, l’ex spalla radiofonica di Fiorello, che per un prestito di 10 mila euro si è trovato a doverne restituire 600 mila con un tasso annuo del 1.000%. Considerato reticente nel suo interrogatorio è indagato per false informazioni ai pm. Uno dei tanti che non ha denunciato.
Due le parole chiave che ricorrono nelle indagini condotte dal pm Giovanni Musarò e dai carabinieri del Nucleo provinciale, con il coordinamento dell’aggiunto Michele Prestipino. «Roccaforte», intesa come vicolo di Porta Furba, quartiere Appio-tuscolano, dove era asserragliata questa costola della numerosa famiglia: in due episodi riportati nelle oltre 1.200 pagine di ordinanza i pusher del clan provano a salvarsi chiamando in strada i familiari per respingere i carabinieri. E poi «legami», intesi come consanguineità, la vera forza del clan: un’associazione impermeabile a tutto anche per la sua lingua, il sinti, usata per discutere di affari illeciti. Solo i pentiti, i primi in assoluto, hanno permesso di decifrarlo a pieno.
Gli inquirenti parlano di «arcipelago Casamonica» per indicare il sistema di famiglie collegate ma autonome sotto il «carismatico riferimento» del patriarca Vittorio. Due i rami coinvolti. Al vertice del primo c’era Giuseppe detto Bìtalo, che da poco ha finito di scontare dieci anni di carcere ma che dalla cella dirigeva gli affari tramite sua sorella Liliana, spietata reggente sul territorio. È lei che fa sequestrare in casa la moglie dell’altro fratello Massimiliano, la gagé (non rom) e oggi pentita Debora Cerreoni, che minacciava di scappare con i figli. L’altro ramo è quello del cugino Luciano, imparentato agli Spada e già noto per la foto a cena con Salvatore Buzzi, Gianni Alemanno e l’ex ministro Giuliano Poletti nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo. A corredo, i legami con Massimo Carminati, la camorra di Michele Senese, la Magliana di Enrico Nicoletti.
A una vittima viene levata casa («come ti sei permesso di entrare e cambiare serratura?»), altri si trovano a dover pagare anche debiti ormai estinti sulla base di richieste extra (spese mediche incluse). Tra gli esattori, Domenico Spada, detto Vulcano, ex campione di boxe, la cui palestra a Marino è stata sequestrata con un centro estetico, quattro immobili, 20 auto e decine di Rolex usati come beni di autoriciclaggio. Il clan aveva messo le mani anche su una discoteca a Testaccio e un ristorante al Pantheon.
L’ex campione Tra gli esattori del clan anche Domenico Spada detto Vulcano, ex campione di boxe