Corriere della Sera

Ecco perché dico: grazie, professori

- di Enrico Galletti

Tutti a dirmi che quello della maturità è un periodo che non si dimentica. Ma io tornerei ancora a scuola per dire grazie ai miei professori e dirgli che fanno un lavoro difficile, tra i più affascinan­ti al mondo.

La carne sulla griglia, il tramonto appena accennato, nei volti la stanchezza di una giornata di lavoro. Difficile, noiosa, piena di «rogne». Le leggi una ad una, in quegli sguardi un po’ arrossati dal sole e diversi, così diversi da rendere difficile credere che Giulia, la secchiona della classe, sia incinta; che Marcello, il capocannon­iere ad honorem delle battute senza senso, adesso vive con sua moglie e una bimba piccola con lo zaino dell’asilo sulle spalle. E che persino Alberto, il cocco della prof di matematica, si sia fatto una vita al di fuori di equazioni binomie e logaritmi. E, colpo di scena, nessuna traccia della coppia storica del liceo: Andrea e Lucia, vicini di banco e innamorati persi. Avevano inciso su un armadietto un cuore gigante che sconfinava nello scomparto dei dizionari. Poi, dopo vent’anni, ognuno per la sua strada. La barba folta sul volto di Mattia e le prime rughe di Mariella, la capoclasse, sono testimoni inconfondi­bili del tempo che scorre, in quella cena di classe del 2038 in cui tutti sono cresciuti.

Una vita passata a sognare di diventare medico, calciatore, scienziato e quei sogni accavallat­i che col tempo sono diventati realtà. Pensavo di chiedere i compiti per il giorno seguente, ché alla supplente di inglese mica gliela potevi raccontare tanto: se i compiti non li avevi te ne andavi dritto in presidenza. Strabuzzo gli occhi, silenzioso. La Santarelli, ecco il nome di quella «prof» che ti aveva spremuto come un limone. Pensando a lei rivedi tutto, quelle ore sui banchi a sputare sangue, il terrore che una volta entrata cominciass­e a interrogar­e a sorpresa e interrogas­se proprio te, che eri il quindici sul registro, e il giorno sommato all’anno sottratto al numero di giri della terra in un millennio faceva esattament­e quindici.

Fiotti di ricordi che si sommano silenziosi, troppo silenziosi per far rumore, per dirti che quello che stai vivendo è un sogno, che a venti giorni dalla maturità non è più tempo della scuola. Eppure te la sogni ancora, e a chi non è capitato? Quei corpi pieni d’ansia ad attendere il proprio turno fra le porte dell’atrio. Poi il proprio nome che risuona nel corridoio e il giro di giostra che inizia. Come sugli autoscontr­i, quando l’adrenalina sale e senti la musica alzarsi, allora ti butti a capofitto sul sedile incassando botte e colpi in pista. Come quando uscendo, dopo l’orale, trovi tutti ad aspettarti e incrociand­o i loro sguardi realizzi che è finita per davvero.

Per me è finita il 3 luglio, presto. Mentre davo l’esame ho sentito le persone ripetermi che quello della maturità è un periodo che non si dimentica, che se lo sognano ancora di notte, alcuni. «E adesso inizia la vita», mi so- no sentito dire. La verità è che non si è mai pronti per crescere, non lo si è mai abbastanza. Nemmeno quando quelle otto lettere, «maturità», sembrano essere una garanzia. Si torna sempre dove si è stati bene. E io, al liceo, ci tornerei a settembre, se non altro per dire al mio prof di fisica che le sue lezioni sulla termodinam­ica io non le ho mai capite, ma ho sempre apprezzato quel suo tentativo «folle» di svegliarsi la mattina e spronarci a ragionare, anche quando sarebbe stato più facile fermarsi alla teoria di una formula senza dimostrarl­a. Guarderei i miei professori e direi loro che fanno un lavoro difficile, così difficile da essere tra i più affascinan­ti al mondo. Spiegherei a quella di italiano che il suo tentativo di insegnarci a scrivere, in fondo, è servito. Adesso, dall’altra parte della «trincea», implorerei il prof di latino di continuare a insegnare il fascino irresistib­ile dell’inutile. A quello di storia dell’arte chiederei di non stancarsi mai di rendere a parole il senso del bello. E di non cedere il passo, mai, a una società che dipinge i giovani come svogliati, assenti, passivi. A chi dice che i fantomatic­i «due mesi di ferie» bastano a giustifica­re le difficoltà di un lavoro che invece non è mai pagato abbastanza.

Insegnanti di vita, dicono. Ecco cosa ricorderem­o di questi anni, che a scuola si va per diventare grandi, che impariamo ad apprezzare quello che abbiamo solo dopo averlo perduto. Mai prima. Come quei miti greci che hai tanto odiato, salvo accorgerti, dopo la maturità, che quelle storie erano lì per te, per insegnarti a vivere. E invece di essere al mare ti ritrovi in camera da letto con quelle foto di classe fra le mani che in cinque anni raccontano un po’ di te: i dubbi, le ansie, i litigi.

Forse è arrivato davvero il momento di spiccare il volo, di sognare la tua classe di liceo proiettata nella vita, tra lavori, figli e robe grosse, mica più compiti da copiare al volo. A tutti capita di sognarsela, la maturità. Anche quando è presto, e gli esami sono appena terminati. Quando ti dicono che la vita comincia e non sei pronto a partire. Come Odisseo in mezzo al mare che lascia a Itaca una parte di sé. Ma sceglie di partire, comunque, di andare un po’ più in là per vedere quel che accade. E anche noi, oggi, partiamo: la vita non aspetta. La vita, là fuori, corre veloce.

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